Al presente
Aprile 2018
Una Lega dopo l'altra
di Paolo Barcella
Questo intervento è la rielaborazione di un estratto dell’articolo Percorsi leghisti. Dall’antimeridionalismo alla xenofobia, in uscita per la rivista «Meridiana», 91, 2018.
Nei mesi di gestazione della Legge Martelli, la Lega Lombarda riuscì ad acquisire per la prima volta visibilità nazionale. Umberto Bossi era il solo senatore eletto per il partito, ma propose numerosi emendamenti finalizzati all’ostruzionismo parlamentare e una raccolta di firme per indire un referendum abrogativo della stessa legge. Proprio per questo, secondo Laura Balbo e Luigi Manconi, il leghismo settentrionale poteva essere considerato, già all’inizio degli anni Novanta, un’organizzazione dell’intolleranza che aveva costruito il proprio localismo sulla contrapposizione e la denigrazione dell’altro, meridionale o straniero, meritando di entrare nel vocabolario del razzismo nostrano.
Negli anni, la vocazione xenofoba del partito - che è diventato Lega Nord federando diverse realtà settentrionali - si è rafforzata, fino a rappresentare la rivendicazione autonoma e autosufficiente che, per Balbo e Manconi, non era ancora nel 1992. Tuttavia, prima di fondersi nella Lega Nord, i leghismi sono stati realtà multiformi e, per molti aspetti, oscillanti: solo la forte leadership di Umberto Bossi ne seppe governare le costanti tensioni interne grazie a un lavoro di contenimento, di costruzione di equilibri, di elaborazione di parole d’ordine nella forma di significanti capaci di contenere i diversi significati utili ad attivare processi di identificazione in individui e gruppi sociali appartenenti a realtà locali diverse, non necessariamente omogenei per retroterra ideologico, culturale e di classe, puntando ad assorbire soggetti collocati da sinistra a destra lungo tutto l’arco costituzionale.
Nella sua prima stagione, infatti, i principali collanti del partito furono senza dubbio le spinte localiste interclassiste delle regioni pedemontane che articolavano al proprio interno varianti del preesistente sentimento antimeridionale, rafforzato dalla crescente spinta anticentralista che si alimentava della polemica antistatale, dell’odio per il potere romano e per un sistema partitico ritenuto corrotto.
Tali istanze incrementavano l’antimeridionalismo anche a causa della nutrita presenza negli apparati statali lombardo-veneti di immigrati meridionali, giunti in regione soprattutto a partire dagli anni Sessanta. Meridionali, secondo i leghisti, erano gli impiegati delle poste, i funzionari comunali, gli insegnanti di scuola ai quali si contestava di non conoscere le culture e le “lingue” locali e, quindi, di non poter svolgere in modo adeguato la loro funzione di servizio pubblico e di educazione delle nuove generazioni ai valori condivisi all’interno delle comunità. Meridionali erano anche i questori, i funzionari di polizia, i carabinieri, soggetti che, secondo larghi strati di popolazione settentrionale, erano giunti al Nord solo a causa della disoccupazione per farsi mantenere e per rendersi responsabili di atteggiamenti ritorsivi nei confronti della “gente padana”.
Dei vari e differenziati sentimenti antimeridionali i leghisti riuscirono a farsi interpreti condensandoli in un’unica narrazione. Nel 1987 molti ritenevano che l’odio per il Sud fosse l’unico vero argomento della Lega Lombarda e di Bossi in particolare. Luciano Gulli, per esempio, raccontava così l’ingresso del senatùr in parlamento: «È dimostrato: si può diventare deputato anche solo gridando “a casa loro i terroni!”». In quella fase la questione migratoria appariva del tutto marginale nei discorsi del partito, tanto che lo stesso Bossi dichiarava: «Noi non siamo un movimento razziale […] siamo solo autonomisti e per un’Europa fondata sul federalismo […] noi non abbiamo parlato di un blocco all’immigrazione. Chiediamo solo che sia data la precedenza ai residenti in Lombardia». E proprio facendo leva sui localismi e sull’antimeridionalismo, a partire dalle elezioni politiche del 1987 e poi con le europee del 1989, la Lega Lombarda moltiplicò i suoi consensi, riuscendo a entrare in parlamento e a raggiungere quota 470.000 voti alle europee.
In Lombardia il partito aveva ottenuto un consenso superiore al 10% nel 49% dei comuni lombardi con un numero di abitanti inferiore a 5.000; nel 46% dei comuni con numero di abitanti compreso tra 5.001 e 10.000; nel 32% dei comuni con numero di abitanti compreso tra 10.001 e 50.000; nel 33% con numero di abitanti superiore a 50.001. Guardando da vicino le amministrazioni in cui il partito trionfava ci si rende conto di un aspetto decisivo: erano i piccoli comuni maggiormente caratterizzati, in anni di poco precedenti a quelli in cui il leghismo aveva avuto origine, dal fenomeno emigratorio. Non solo: si trattava dei comuni che avevano conosciuto una massiccia emigrazione verso un paese in particolare, la Svizzera, sia nella forma dell’emigrazione in senso stretto, sia nella forma del frontalierato. Situazione almeno in parte analoga riguardava i paesi veneti in cui la Lega raccoglieva consenso diffuso: anche lì, nel secondo dopoguerra, aveva avuto grande rilevanza l’emigrazione verso Svizzera, Germania, Belgio. Si trattava insomma di paesi nei quali la rappresentazione dell’emigrante era in sostanza quella del frontaliere o del gastarbeiter, ossia di pura forza lavoro straniera al comando dei “padroni di casa”.
Il migrante immaginato dagli abitanti di aree a forte propensione leghista era quindi un lavoratore straniero presente per un periodo limitato, destinato a “tornare al paese”; un lavoratore senza diritti politici, la cui integrazione era disincentivata; e, infine, un lavoratore sottoposto a controlli di frontiera. Tali materiali della memoria e dell’immaginario emigratorio contribuirono a generare una nuova subcultura politica territoriale, condivisa da soggetti spesso differenziati per appartenenza di classe, ma fortemente identificati con il proprio territorio e la sua “cultura”.
La memoria dell’emigrazione ebbe insomma una funzione di contro-identificazione anzitutto tra i soggetti che in queste regioni avevano avuto un’esperienza di emigrazione e i migranti dal Sud Italia, quando giungevano nelle loro province per svolgere mestieri impiegatizi, nei servizi, nelle scuole, con la possibilità di restare: per numerosi ex emigranti lombardo-veneti era difficile sopportare di avere lavorato anni all’estero per procurarsi un pane che sembrava loro i meridionali ora pretendessero di condividere, senza la fatica di lavorare nelle miniere o di rischiare la vita nei cantieri di montagna. Fino alla fine degli anni Ottanta, questo meccanismo portò buona parte dei primi leghisti addirittura a identificarsi più facilmente con gli immigrati stranieri che con i meridionali, in quanto pareva loro che i primi lavoravano nelle fabbriche, nei cantieri, oppure come domestiche o domestici, talvolta in nero e in condizione di precarietà, mentre percepivano i meridionali come un blocco di dipendenti statali.
La situazione cambiò tra il 1989 e il 1990 quando la questione immigratoria acquisì centralità nel dibattito politico italiano. I leghisti maturavano una crescente opposizione di fronte a chi, progettando la legge per la regolamentazione dell’immigrazione, richiedeva maggiori diritti per i migranti, tutele, lavoro a pari condizioni, semplificazione dei processi di integrazione, sanatorie per i clandestini. Il fastidio nei confronti della Legge Martelli cresceva tanto più sembrava volesse concedere ai migranti condizioni favorevoli: decisiva in questo processo era ancora una volta la memoria emigratoria che, contrariamente a quanto sosteneva larga parte della sinistra, non mancava affatto tra i leghisti i quali, semplicemente, ne facevano il loro uso politico.
Fu proprio in questa fase che Lega Nord trasformò per la prima volta l’immigrazione nel suo cavallo di battaglia. Le vicende del 1991 e lo sbarco in Puglia di migliaia di albanesi accentuarono il processo, in parallelo al generalizzato crollo dell’empatia provata in Italia nei confronti degli immigrati. In seguito, quando Mani pulite e la fine dei sistemi socialisti crearono un vuoto politico nel paese, la Lega Nord ebbe modo di crescere in modo esponenziale, passando in pochi anni dai due eletti del 1987 agli oltre centottanta del 1994. Nel partito c’era molta consapevolezza rispetto alla rilevanza che i media avrebbero ricoperto nella strada verso il potere e al modo con cui conquistare gratuitamente la loro attenzione: affermazioni politicamente scorrette, molto violente e volgari vennero usate per conquistare titoli sui giornali e partecipazioni televisive. Come sostenne Maroni in un’occasione: «[Bossi] è un genio. Se avessimo dovuto comprare lo spazio [che ci è stato concesso] sui giornali avremmo speso miliardi».
La maggiore visibilità imponeva dei mutamenti: la lingua parlata dal partito non poteva più essere quella degli anni precedenti, quando le province alpine e prealpine erano i territori di riferimento e il localismo la parola d’ordine di attivisti e militanti. Nella cavalcata verso la conquista di altri segmenti di settentrione, la xenofobia, che in quella fase trovava negli albanesi uno dei principali obiettivi polemici, appariva come il tratto ideologico spendibile a Belluno, come a Torino, a Triste o a Milano. Tuttavia, le tensioni con Alleanza Nazionale e la rottura con Berlusconi consentirono alla Lega Nord di conservare per qualche tempo anche una parallela, forte ed esplicita vocazione antimeridionale che era necessaria per saldare i consensi nei territori delle origini.
Solo dopo il secondo governo Berlusconi e il consolidamento dei rapporti tra Bossi e Fini, suggellato dalla Legge sull’immigrazione che porta i loro nomi, si assistette alla prima stagione di accantonamento della retorica antimeridionale dai discorsi ufficiali del partito, diffusi dai media nazionali, e al consolidamento definitivo della Lega come forza a netta prevalenza xenofoba: nelle località di antica origine leghista, tuttavia, il sentimento antimeridionale si mantenne intatto, circolando nei contesti locali. Ancora nel 2011, per esempio, durante le stagionali feste estive della Lega Nord, era possibile trovare gadget padani che “celebravano” i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia in modo decisamente eccentrico. Era il caso della maglietta sulla quale il volto di Garibaldi appariva sbarrato e accompagnato dalla scritta: «Garibaldi, cazzi tuoi mai?».
Proprio per questo la svolta nazionalista che Salvini ha deciso di imprimere al suo partito ha generato resistenze e imbarazzi in un consistente numero di leghisti della prima ora, che non digeriscono facilmente un leader intento a cercare consenso al Sud, vestendo felpe con la scritta «Viterbo» o «Catania», al posto della t-shirt «Padania is not Italy» con cui circolava fino a non molti anni fa.
I referendum per l’autonomia veneta e lombarda si sono collocati su questa linea di tensione. Voluti da Maroni, Zaia e dalla vecchia guardia leghista, quei referendum si sono basati su una campagna elettorale condotta a livello di sedi locali, atta a mobilitare i cittadini sfruttando i classici cavalli di battaglia sul Sud mantenuto dal Nord che paga le tasse. Recitava un manifesto relativo alla questione fiscale circolante nelle feste padane dell’estate 2017: «Ogni lombardo perde 5.511 euro all’anno, mentre ogni siciliano riceve 8.908 euro». Di nuovo un Sud descritto come zavorra. Ed è proprio questa è la principale linea di tensione interna con cui la Lega a vocazione nazionalista di Salvini ha dovuto fare i conti nei mesi scorsi, vivendo il momento di massima evidenza quando Maroni ha rinunciato alla ricandidatura a governatore della Lombardia, con le polemiche conseguenti.
Ora la Lega (senza Nord) di Salvini ha moltiplicato i suoi consensi, estendendosi al di fuori delle sue antiche province di riferimento. Un successo evidente della nuova Lega, nel quale si palesa tuttavia la sconfitta di un consistente segmento della vecchia Lega Nord e del suo spirito. Molti elettori leghisti delle origini hanno votato Salvini turandosi il naso: solo xenofobia e questione migratoria possono tenereli appesi a un partito nel quale non vedono più il loro mondo. Per certi aspetti, insomma, la Lega di Salvini ha seppellito la Lega di Bossi e Maroni tanto negli strumenti, quanto nella sostanza. Da un lato, infatti, la Lega Nord fino al 2011 aveva costruito il suo consenso a partire da un lavoro sul territorio fatto di gazebo, volantinaggi, militanza di base, feste estive del partito ben finanziate e diffuse in certe province quanto le vecchie Feste dell’Unità. La crisi del 2011 aveva segnato una battuta d’arresto in quella direzione: il recupero di Salvini è avvenuto su tutt’altro terreno, a partire dall’uso dei nuovi media, dalla proliferazione della sua immagine su tutti i canali radio televisivi, dalla radicalizzazione della sua posizione su un tema solo, quello migratorio, diventato il solo fattore d’attrazione per il partito. Dall’altro la Lega di Salvini ha vinto presentandosi come forza di estrema destra, vicina a uomini e a forze politiche dichiaratamente – e spesso orgogliosamente – xenofobe e reazionarie, tanto nazionali quanto estere, rimarcando in questo modo la fine della stagione in cui la Lega Nord si presentava come movimento politico che, secondo quanto ebbe a dire Bossi nel 1994, non sarebbe mai stato “coi fascisti e i nipotini dei fascisti”. Proprio per questo diventa ora molto interessante studiare il voto leghista, comprendere se e quale tipologia di elettorato potrebbe avere perso nelle regioni di più antico radicamento, evidentemente in favore di altri soggetti e segmenti sociali diffusi anche nel resto del territorio nazionale. Ragionare di questo è ragionare del futuro, non soltanto leghista.