Al presente #30
Riaprire, ripartire, recuperare e crepare
di Simona Baldanzi
Pubblichiamo l’intervento e la testimonianza di Simona Baldanzi, rappresentante territoriale dei lavoratori per la sicurezza a Prato. Sociologa di formazione è autrice di romanzi e racconti (dall’esordio con “Figlia di una vestaglia blu” nel 2006 al recentissimo “Corpo Appennino. In cammino da Monte Sole a Sant’Anna di Stazzema” del 2021), nonché curatrice di inchieste fra cui quella dedicata ai cantieri appenninici della TAV “Mugello sottosopra. Tute arancioni nei cantieri delle grandi opere” del 2011.
In Italia, fra gli anni Sessanta e Settanta, le lotte del movimento operaio, i milioni di ore di sciopero e l'alleanza del mondo del lavoro con studenti, tecnici, medici ed esperti, oltre alle numerose conquiste contrattuali, hanno portato al varo, sul piano legislativo, dello Statuto dei diritti dei lavoratori e del Sistema sanitario nazionale. Con lo Statuto dei lavoratori si sosteneva che la Costituzione entrava nelle fabbriche; inoltre, grazie alle lotte per lavorare in salute e sicurezza, si era finalmente ottenuto il diritto ad essere curati con un sistema capillare pubblico di servizi sanitari. I problemi di salute e sicurezza che molte lavoratrici e lavoratori vivevano dentro le fabbriche, le nocività che compromettevano polmoni, schiene, arti e ogni senso, nonché fatiche e stress, non solo erano balzati all'attenzione delle masse, ma erano diventati terreno di scontro e patrimonio comune per rivendicare tutele dentro e fuori i luoghi di lavoro. Si era compreso che difendere la salute non era solo questione di luogo e orario di lavoro, tale difesa non era circoscritta ad un momento e ad una condizione solo lavorativa, ma la tutela doveva essere universale per coprire tutte le condizioni e i momenti della vita.
Decenni di politiche del lavoro promosse in nome della flessibilità e di tagli alla spesa pubblica hanno indebolito sia lo Statuto dei lavoratori, sia il sistema sanitario nazionale.
Il diffondersi della pandemia da Covid19 all'inizio del 2020, pur nella sua tragicità, sembrava tornare a dar risalto a questi temi: poiché il virus si diffondeva ovunque, in qualsiasi luogo di lavoro e in qualsiasi luogo privato o pubblico senza far distinzioni, la salute nonché l'urgenza di adeguate misure di prevenzione e protezione erano tornate al centro del dibattito in maniera massiccia e diffusa. Quelle rappresentanze su salute e sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori, conquistate con lo Statuto dei lavoratori del 1970 e poi perfezionate con il decreto legislativo 626 del 1994 e col Testo Unico del 2008, improvvisamente avevano telefoni infuocati e venivano riconosciuti come figure da interpellare ed essere consultate sia da parte dei lavoratori che delle imprese. Purtroppo, questa attenzione e questa legittimazione non sono durate. Passato il lockdown, lo smarrimento, la frenesia del susseguirsi di DPCM, protocolli e delibere regionali, le riunioni e i continui aggiornamenti, gli Rls, i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza sono tornati i “rompiscatole” di prima. La prevenzione, dal rinnovato interesse, da questione indispensabile, è diventata velocemente un ostacolo alla ripartenza. C'è da fare ancora più in fretta per il tempo perso e ogni protezione e prevenzione è più che un orpello, è un peso e un freno.
Sono RLST, rappresentante territoriale dei lavoratori per la sicurezza nella provincia di Prato, ovvero rappresento lavoratrici e lavoratori sostanzialmente nel settore dell'artigianato per le aziende sotto i 15 dipendenti, laddove non ci sia un rappresentante interno. Sono una figura di emanazione sindacale (il mio mandato è dato dalla CGIL di Prato), ma che agisce ed è finanziata dalla bilateralità. Questa figura di rappresentanza è prevista proprio per far fronte alla frammentarietà delle aziende italiane, per cui nel 90% dei casi siamo di fronte a piccole e piccolissime aziende. Faccio sopralluoghi per visitare le aziende, parlare coi lavoratori per confrontarci sul mio e sul loro ruolo, visionare la documentazione sulla valutazione dei rischi e gli attestati di formazione, parlare coi datori di lavoro e capire a che punto sono con le misure di miglioramento. Cerco insomma di collaborare con tutti i soggetti dei servizi di prevenzione e protezione per far progredire le condizioni di salute e sicurezza. Purtroppo, nonostante sia un ruolo definitivamente previsto dal Testo Unico del 2008, a distanza di oltre 10 anni, ancora oggi questa figura non è del tutto conosciuta e compresa.
A febbraio 2021, a Montale, in provincia di Pistoia, in una ditta italiana strutturata è morto schiacciato da un macchinario Sabri Jaballah, operaio tessile poco più che ventenne. A maggio 2021, a Montemurlo, in provincia di Prato, Luana D’Orazio è morta stritolata nel subbio di un ordito in una piccola ditta artigiana italiana. Due ventenni regolarmente assunti, in poco tempo, nello stesso territorio e nello stesso settore: improvvisamente e terribilmente questi due episodi ci hanno ricordato che gli operai e le operaie esistono e che la narrazione dominante sugli operai che non esistono e sui giovani solo sdraiati e nullafacenti, ci mandano fuori strada. La pandemia doveva portarci a porre più attenzione sulla salute e, dunque, anche su salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. In realtà, ha reso il bollettino delle morti e degli infortuni sempre più fitto e con dinamiche che sembravano ricollegabili al passato. C'è da ripartire, da farlo in fretta e ogni attenzione o precauzione non è tollerabile. Ad oggi sono ancora in corso le indagini sul macchinario che ha ucciso Luana D'Orazio, ma pare siano state manomesse le protezioni. Il dibattito sulle macchine insicure e la conseguente legislazione in materia risale agli anni '50. Oggi non devono esistere macchine insicure. Non sono quindi le macchine ad uccidere, ma l’organizzazione del lavoro e il contesto in cui avvengono. Se abbiamo compreso che il contesto generale in cui sono avvenuti questi infortuni mortali è quello di un allentamento dell'attenzione su salute e sicurezza e di un'impennata della ripartenza, vediamo meglio il caso pratese e tessile.
Prato, all'inizio della pandemia, aveva tutti i riflettori puntati per l'alta presenza di cittadini cinesi nel suo territorio. In quella fase si è distinta per pochi contagi. Non è andata allo stesso modo nella seconda ondata, soprattutto nel 2021. Prato è diventata prima di altre province “zona rossa” e, nonostante le misure di contenimento previste, i contagi non davano cenno di diminuzione. Anche le Asl locali hanno ad un certo punto dato notizia che ci si contagiava nei capannoni e che occorrevano misure e controlli.
Prato ha un’altissima percentuale di lavoro part-time se confrontata col resto della Toscana. Si assicurano i lavoratori per 4 ore, mentre se ne lavorano dalle 12 alle 16. Se il lavoro in nero è subito identificabile da parte degli organi di vigilanza, il sommerso e il grigio lo sono molto meno: devono essere le lavoratrici e i lavoratori a raccontare che non stanno lì solamente per le 4 ore assicurate. A Prato è balzata alla cronaca nazionale la lotta, con sciopero e presidio permanente, dei lavoratori tessili della Texprint che chiedono di lavorare 8 ore al giorno e di non essere sfruttati: praticamente una conquista ottenuta circa cento anni fa, ma che qua non è garantita.
Prato ha inoltre, sempre confrontando il dato con altre province toscane e in base quindi al numero di abitanti e commisurato alla realtà manifatturiera, poco personale negli organi competenti per i controlli. Ha avuto sì investimenti regionali per il Piano del lavoro sicuro, ovvero un aumento del personale nel settore della medicina del lavoro per i controlli a seguito della morte dei 7 operai nel rogo del Teresa Moda, avvenuto a dicembre del 2013; controlli che hanno prodotto risultati, ma che comunque sono oggetto di critiche in quanto non attuati per l'intera filiera tessile. I controlli, di fatto, si sono intensificati, ma solo per le aziende a titolarità cinese. Il settore tessile è fatto di terzisti e di una concatenazione di parti di produzione strettamente collegate: controllarne solo una significa indagare un anello di tutta la catena.
Prato ha una superficie di capannoni industriali impressionante che l’ha disegnata nei decenni, e ha un'urbanizzazione particolare poiché gli opifici sono cresciuti a fianco delle abitazioni prima di creare zone industriali ad hoc. Molti fra questi capannoni, a partire dalla crisi del tessile degli anni '90, sono stati svuotati, altri lasciati fatiscenti o senza innovazione. Tanti industriali hanno abbandonato la produzione e gli investimenti per darsi alla più comoda e redditizia rendita degli affitti. La sentenza sul rogo del Teresa Moda ha condannato i titolari cinesi dell'azienda, ma ha scagionato i proprietari del capannone, definiti dal Pubblico ministero «professionisti dell’immobiliare». Sarebbe interessante avere i dati sugli affitti, sulla concentrazione della ricchezza da rendita, per definire un quadro della città e dei suoi cambiamenti, ma non interessa a nessuno scovarli. Il distretto tessile era caratterizzato anche da un continuo studio del territorio e della filiera, coniando concetti poi divenuti di uso nazionale, ma che adesso si è smesso di fare. La ricerca, come la prevenzione su salute e sicurezza, è un orpello, una perdita di tempo, quella sociale non ne parliamo. Anzi, si è fatto pure peggio: non studiando i cambiamenti, non ponendosi nuove domande, si è continuato a guardare il distretto tessile con la lente della nostalgia del passato, quella gloriosa “età dell’oro” dove chiunque trovava da lavorare e giravano tanti soldi. Così, si sono date risposte “di pancia”. Domande sbagliate e risposte superficiali. Sarebbe interessante capire cosa è rimasto del distretto e della sua storia. Perché, ad esempio, si fa appello al recupero della comune etica del lavoro, che nel passato doveva caratterizzare Prato in meglio? Quale etica aveva Prato? Lavorare 16 ore al giorno per sognare di diventare padrone, perdere falangi e udito, avere le acque dei fiumi coi colori che sarebbero andati nella stagione successiva, avere i bambini a gironzolare fra i macchinari, far vibrare i capannoni a fianco delle case? Questa è etica del lavoro? Questo aiuta salute e sicurezza nel lavoro e nella città? Altra domanda da porre sarebbe sul tessuto produttivo familiare e se questo aiuti o meno a implementare la prevenzione. Da sempre, nel distretto manifatturiero tessile pratese le aziende familiari sono considerate un punto di forza e di unione. Luana D'Orazio è morta in un'azienda di questo tipo. Al di là del singolo caso, in salute e sicurezza sul lavoro l'azienda familiare salva e protegge? I legami di affetto non significano fare prevenzione sui luoghi di lavoro. Il volersi bene è volubile, il sentimento a volte inibisce pure una richiesta di protezione, mentre i diritti, le protezioni, l'investimento in tecnologie, la formazione, no.
Se questo è il contesto in cui sono morti due operai tessili ventenni, cosa succederà con lo sblocco dei licenziamenti, lo sblocco degli sfratti, la fine degli ammortizzatori sociali o di qualsiasi altro sostegno al reddito, la cancellazione delle tutele del codice degli appalti, la frenesia della ripartenza sempre più marcata?
Il PNRR, il piano nazionale di ripresa e resilienza, contiene due parole che delineano due concetti profetici e minacciosi per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro. La ripresa: l'andazzo meramente quantitativo delineato fino ad ora sembra dire che bisogna ripartire e lo si deve fare a qualunque costo. La resilienza: lavoratrici e lavoratori si devono adattare e sopravviverà chi ci riuscirà. Sembra non ci sia spazio per la debolezza e neppure per l'alleanza fra operai e studiosi, fra condizione materiale e conoscenza, che ci portarono riforme importanti come lo Statuto dei lavoratori e il Sistema Sanitario Nazionale.