Al presente
Aprile 2017
I lavoratori del carbone a Genova
Ascesa e declino di una compagnia portuale
di Andrea Bottalico
Nel porto di Genova, non lontano dalle calate e dalla lanterna, c’è un vecchio palazzo rettangolare che a vederlo da fuori sembra inagibile. Costruzione anacronistica rispetto allo scenario circostante, anche se la facciata è circondata dalle impalcature si riesce ancora a leggere l’insegna. Una targa sul muro all’interno del cortile «eterna il ricordo dei lavoratori deceduti», sopra l’arcata una scritta: «Il lavoro, anche il più umile, anche il più oscuro, se sta ben eseguito tende alla bellezza e onora il mondo». Si tratta dell’edificio in cui ha sede la Compagnia Portuale “Pietro Chiesa”, per l’imbarco e lo sbarco di carboni minerali all’interno del porto di Genova. Come un museo chiuso al pubblico i documenti d’archivio e i cimeli restano ammassati nelle camere di questo edificio degli anni Trenta, testimonianza di una storia lunga oltre cent’anni, intrecciata a quella degli scaricatori di carbone come Mario, che mi conduce all’interno delle stanze ripercorrendola.
Ex console della Compagnia in pensione, figlio e nipote di carbonai, Mario ha cominciato a lavorare in porto come raccogliticcio nel 1960, mentre Genova si opponeva al congresso del Movimento Sociale Italiano. In una stanza piena di oggetti sparsi tra la polvere racconta di quando aveva a che fare con il caolino, il manganese, la mica, il nerofumo; da un mobile recupera una foto del 1910 che ritrae un gruppo numeroso di lavoratori in posa, seduti e in piedi di fronte alla macchina fotografica, tutti sporchi e con il cappello in testa. I carbonai non li indossavano per vezzo, ma imbottivano quei cappelli con la stoffa per difendere la testa dalla caduta dei pezzi di antracite durante le operazioni. Altre immagini di fine Ottocento ritraggono i coffinanti alle prese con l’imbarco di carbone nelle stive dalle pedane di legno, facce nere come quel minerale che trasportavano dalla nave alla banchina e viceversa; in altre ancora si vedono i confidenti, intermediari degli armatori che chiamavano i portuali al lavoro, selezionandoli a loro piacimento, in base alla resa produttiva. I confidenti erano anche proprietari delle trattorie in zona, e quelli che venivano avviati al lavoro dovevano poi andare a mangiare da loro.
Era il caporalato: nel porto di Genova durò più o meno fino a quando, nel 1889, Pietro Chiesa e altri fondatori decisero di costituire a Sampierdarena una cooperativa di lavoratori del carbone, sulla scia delle camere del lavoro francesi e delle cooperative sociali di Liverpool, in un periodo storico di grande fermento per il movimento cooperativistico in Europa. La cooperativa dei carbonai era divisa in sezioni: gli smarcatori, che andavano nelle stive delle navi, i coffinanti che camallavano il carbone con quelle ceste sulle spalle – le coffe – da centocinquanta chili in su, gli spaccantracite che rompevano i blocchi, e i pesatori che controllavano il peso. Erano circa 5 mila in quegli anni di inizio Novecento, gli stessi carbonai che diedero vita allo “sciopero nero” che paralizzò il porto di Genova per cinque giorni, proprio a causa della “libera scelta” dei confidenti e dello scioglimento della Camera del lavoro. Da quegli scioperi cadde il governo Saracco, nel 1903 nacque il Consorzio Autonomo del Porto per regolare i conflitti al suo interno, e le chiamate all’avviamento per il lavoro portuale furono regolamentate tra soci delle cooperative, avventizi e raccogliticci.
Una volta costituiti, i carbonai cercarono di rendere più umano quel lavoro, le cui condizioni erano state raccontate dagli articoli di Luigi Einaudi. I soci costruirono questo edificio nel cuore del porto lasciando una quota delle giornate di avviamento per la costruzione. Fu aperta una barberia, uno spaccio, un ristorante, c’erano le docce, e chiunque, rientrando, doveva portare un motto di carbone per alimentare la caldaia dell’edificio. Con l'avvento del fascismo il nuovo codice della navigazione disciplinava le cooperative, mettendo alla testa una persona imposta dal regime, il Console appunto, denominativo che tuttora persiste per indicare i presidenti delle due Compagnie Portuali di Genova. Anche il termine Compagnia venne adottato per definire le corporazioni del porto durante il fascismo. La cooperativa dei lavoratori del carbone fu intitolata in memoria del sindacalista Filippo Corridoni, considerato un eroe dal regime, ma nel secondo dopoguerra il nome della Compagnia dei carbonai fu cambiato in onore di Pietro Chiesa, fautore della cooperativa e primo rappresentante dei lavoratori di estrazione operaia al parlamento italiano, di cui è nota la vicenda della prima volta in cui entrò in aula a Montecitorio insieme a Rinaldo Rigola, quando Turati si alzò dallo scranno e disse: «Tutti in piedi, entra il lavoro!».
A partire dal secondo dopoguerra il carbone, da materia prima, lasciò gradualmente il posto al petrolio. Un decreto del 1946 riunì le corporazioni del porto di Genova in una Compagnia Unica di Lavoratori per le Merci Varie (l’odierna Compagnia Unica “P. Batini”), mentre per i carbonai della “Pietro Chiesa” iniziò un lento declino. Negli anni Cinquanta fu avviato il progetto per la costruzione della centrale costiera della Edison Volta, seguita dagli scontri per l’ampliamento dell’Italsider che, sebbene si approvvigionasse di carbone, richiese l’autonomia funzionale dal porto e quindi l’esclusione dei carbonai dal ciclo di sbarco del minerale. La direzione della centrale elettrica invece, costruita all’entrata del porto di Levante, laddove si andò a schiantare il senatore Agnelli con l’idrovolante, firmò un accordo per le operazioni di sbarco e imbarco con i carbonai della “Pietro Chiesa”, che però si assottigliavano sempre più negli organici. Il primo container nel porto di Genova, intanto, venne sbarcato al ponte “Libia” nel ’69.
Il porto cambiava volto, di pari passo con il panorama industriale alle sue spalle, non senza generare scontri politici rispetto al suo sviluppo – il ruolo del partito comunista era predominante. Tra dipendenti del Consorzio Autonomo del Porto e soci delle Compagnie Portuali ne erano circa 10 mila negli anni Settanta, e non sempre i rapporti erano pacifici, così come il rapporto tra le Compagnie Portuali e il sindacato era spesso conflittuale, ambiguo. I soci delle Compagnie, seppur iscritti, avevano come referenti il console e il vice-console, non il sindacato. Erano in altre parole il sindacato di se stessi. Il sindacato, dal suo canto, prima di qualsiasi decisione importante andava a confrontarsi con i consoli delle Compagnie: una prassi politica che la confederazione dei vari Lama e Trentin non ha mai tollerato.
Con l’avvento del container e l’avanzare della globalizzazione economica i carbonai della “Pietro Chiesa” iniziarono a trattare anche lo sbarco e l’imbarco di rinfuse bianche, soprattutto per l’industria di stato e le fabbriche disseminate tra Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna, nel triangolo industriale. Parte della merce non containerizzata che passava per il porto di Genova veniva gestita al terminal “Rinfuse” non lontano dall’edificio dei carbonai, ma il paesaggio industriale alle spalle del porto continuava a trasformarsi in maniera repentina, modificando di conseguenza il porto stesso e la sua funzione. Il paradigma del container a Genova prendeva il sopravvento sulle rinfuse trasportate dalle bulk carrier, quando alla fine degli anni Ottanta cominciava la deindustrializzazione e il processo di privatizzazione dei porti in Italia, sconvolgendo ancora una volta il panorama normativo, in linea con i processi di trasformazione dei porti europei. Il porto di Genova fu prima laboratorio e poi epicentro di questi mutamenti, con un periodo di scioperi, scontri e mobilitazioni durato dieci anni. La nuova legge sui porti promulgata nel 1994 sancì il passaggio da un modello pubblico di organizzazione del lavoro, in cui la figura principale era la Compagnia Portuale, a un modello misto, in cui i terminalisti privati operavano nell’area portuale pubblica tramite una concessione, e le compagnie venivano trasformate in imprese di servizi o di fornitura della manodopera temporanea, a seconda dei casi. Come ogni porto in Italia, quello di Genova andò per la sua strada, dipendente dal suo passato, vincolata dal suo percorso.
Dalla crisi economica del 2008 la Compagnia dei carbonai resiste a fatica all’estinzione, è in balia del mercato del trasporto di rinfuse, che al porto di Genova negli ultimi anni è calato in maniera vertiginosa. Una parte dei soci con il tempo è andata in pensione, qualcuno ha cercato lavoro altrove. Il porto continua a cambiare e la centrale elettrica, a carbone, è in chiusura. La proposta per il futuro è quella di un accorpamento con i soci della Compagnia Unica “P. Batini”, ma il processo stenta a realizzarsi a causa di leggi vigenti che vincolano l’ampliamento degli organici. Guidati dal console Tirreno Bianchi, sono ancora una trentina i carbonai nella Compagnia Portuale “Pietro Chiesa”, nata ufficialmente con atto notarile nel 1889, per lo sbarco e l’imbarco di carboni minerali all’interno del porto di Genova. Andrea, il figlio di Mario, è tra quelli ancora rimasti.