Al presente
Varcare la soglia di casa: violenza e lavoro domestico migrante.
Olimpia Capitano
Novembre 2024
Tra qualche giorno sarà il 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Questa definizione è di per sé limitante a causa di scelte terminologiche che si riferiscono a un’idea biologica di donna e non alla costruzione sociale di alcuni soggetti in quanto donne. Ne consegue un’enorme semplificazione sotto il punto di vista del genere, ridotto a differenza sessuale, senza alcuna riflessione sui significati di volta in volta attribuiti a questa distinzione: il punto non è l’esistenza o meno di una identità biologica femminile o maschile ma cosa culturalmente e politicamente si è costruito intorno a esse in diverse circostanze temporali e spaziali, con quali obiettivi e con quali conseguenze.
In molti contesti occidentali l’invisibilizzazione di questa complessità trova il suo luogo di elezione nello spazio domestico, il cui perimetro è rigidamente definito e narrato come demarcazione di confine tra ciò che è privato (quindi femminile, “naturale” e improduttivo) e ciò che è pubblico (perciò maschile, produttivo e associato al “vero” lavoro). L’adozione di uno sguardo storico e in particolare di una prospettiva di genere nella lettura della storia del lavoro rivela il carattere fittizio di questa divisione e la continua interazione tra pubblico e privato come parti di medesimi processi storici e sociali. Sottolineo questo poiché mi sembra che la costruzione delle cosiddette sfere separate veicoli la possibilità di esercitare forme di violenza fisica e simbolica che sono implicitamente accettate o quantomeno raramente contrastate a livello pubblico e che restano nascoste dietro una porta di casa. Una prospettiva significativa per indagare le molteplici forme di questa violenza è quella del lavoro domestico retribuito svolto da persone migranti in regime di coresidenza. Quest’occupazione fatica ancora a essere riconosciuta come un “vero” lavoro, implica alti livelli di sfruttamento e forme di oppressione che vanno oltre la relazione di tipo lavorativo-contrattuale. Ciò si collega ampiamente a un’interpretazione della casa come luogo dell’intimità. Le esperienze di lavoratrici e lavoratori domestici stranieri che migrano dai paesi del sud ai paesi del nord globale – tra cui l’Italia – testimoniano una disparità di potere che ha un peso a livello geopolitico, che incide sulle relazioni personali e sociali, che chiama in causa genere, classe e razza. Di privato resta ben poco.
In Italia il lavoro domestico salariato ha un rilievo particolare in relazione all’assenza di alcuna redistribuzione del lavoro domestico e di cura tra i generi, alla carenza dei servizi sociali, al forte valore attribuito all’istituzione familiare e alla sua funzione centrale nel provvedere autonomamente alla gestione del welfare. Nel corso della seconda metà del Novecento e in parallelo a un non nuovo ma più cospicuo ingresso delle donne italiane nel lavoro extradomestico, aumenta il numero di famiglie di ceto medio, medio-basso e impiegatizio che cercano opzioni a basso costo per delegare parte dei lavori di casa. In questo contesto si inserisce la crescita del lavoro domestico migrante irregolare, che è conveniente per la parte datoriale e anche per le istituzioni, poiché si verifica una riduzione della domanda sociale di servizi.
L’ingresso delle domestiche straniere in Italia comincia già nel corso degli anni Cinquanta e si fa sempre più intenso tra anni Sessanta e Novanta. Ciononostante, molti lavori sociologici e buona parte di una storiografia tradizionale collocano tali processi solo negli anni Novanta. Si tratta di una lettura storica parziale e deformata che, nella maggior parte dei casi, deriva da una interpretazione delle migrazioni femminili come riducibili al seguire o raggiungere padri e mariti. I flussi delle domestiche straniere contrastano questo paradigma e permettono di rivalutare in profondità l’associazione dell’Italia a paese di emigrazione almeno fino ai tardi anni Ottanta e le conseguenti periodizzazioni della storia migratoria italiana. Aggiungerei che l’aumento del numero di uomini stranieri impiegati nel settore domestico nel corso degli anni Ottanta sovverte radicalmente l’idea radicata di una migrazione maschile come modello autonomo e dominante. Infatti, questa crescita si lega alla già radicata presenza femminile, allo sviluppo di nuove catene informali e all’introduzione del ricongiungimento familiare con la legge 30 dicembre 1986 n. 943, nota come legge Foschi. Non sono le donne a raggiungere i mariti e i padri ma sono gli uomini a raggiungere le mogli e le madri.
La mia ricerca riguarda l’esperienza di domestiche (e alcuni domestici) capoverdiane, etiopi, eritree e filippine immigrate a Roma durante questi decenni poco conosciuti (1970-1989). Ho scelto questi gruppi poiché protagonisti dei primi e più consistenti flussi verso l’Italia e, specialmente, verso Roma. Ho raccolto circa novanta interviste tra lavoratrici, lavoratori, datrici, datori, rappresentanti a vario titolo del settore e delle comunità di immigrazione sul territorio romano.
Le lavoratrici che ho intervistato hanno tutte lavorato a Roma come lavoratrici domestiche fisse (coresidenti) tra gli anni Settanta e Novanta. Alcune adesso sono in pensione, mentre la maggior parte sono transitate verso il rapporto di lavoro a ore, soprattutto a partire dagli anni Ottanta. Tra la fine di questo decennio e il successivo si sono articolati nuovi flussi legati al settore domestico, prima soprattutto dall’Europa dell’est e attualmente da India, Pakistan e Bangladesh. È interessante notare che, con le parole di una sindacalista filippina:
nei primi decenni per noi era tutto molto peggio. Adesso sappiamo muoverci. Adesso è peggio, ad esempio, per indiani, pakistani, perché non hanno un punto di riferimento e anche loro hanno iniziato a lavorare come domestici. Io ho parlato con alcuni datori di lavoro che mi hanno proprio detto che preferiscono prendere un’indiana rispetto a una filippina perché costa di meno e pretende di meno.
Le famiglie per cui le intervistate hanno lavorato durante il periodo in esame talvolta appartengono a classi sociali alte o addirittura di estrazione nobiliare ma, quasi sempre, sono famiglie di ceto medio. Dalle interviste questo emerge come nodo importante perché spesso si sottolinea implicitamente che il ricorso al lavoro domestico, oltre che rispondere a necessità, richiama un’ambizione di status cui frequentemente si legano comportamenti e atteggiamenti mortificanti quando non espressamente violenti nei confronti delle domestiche. Il più di coloro che sono ancora occupate nel settore del lavoro domestico e di cura adesso sono impiegate come badanti ma appena arrivate in Italia e per i primi decenni della loro permanenza hanno tutte svolto prioritariamente lavoro domestico. In generale, comunque, le mansioni tendono a sommarsi, a essere incerte e a mutare nel tempo: in diversi casi lavoratrici assunte come domestiche hanno poi dovuto dedicarsi a compiti solitamente richiesti a baby-sitter o a badanti. Le pretese datoriali sembrano essere piuttosto imprevedibili e tendono a variare in maniera strettamente collegata all'arbitrarietà del loro potere.
Dalle voci delle lavoratrici affiora la compartecipazione di diversi attori sociali nella costruzione di subalternità e nell’esercizio di violenza. Personalmente mi riferisco a queste pratiche in termini di coercizione, che è contemporaneamente lavorativa e sociale. Nelle prossime righe entrerò nel merito di tre sue diverse espressioni: la coercizione pubblico-giuridica; la coercizione privata-datoriale come forma di governo concreto sul lavoro e sui corpi; la coercizione privata-datoriale come coercizione emozionale. Cercherò di mostrare, senza pretesa di esaustività, come queste diverse forme si integrano e influenzano reciprocamente.
Il 4 dicembre 1963 è promulgata la circolare 51/22 IV, primo intervento in materia di immigrazione e lavoro straniero. Non si tratta ancora di una normativa complessiva, per la quale si deve attendere la legge Foschi e soprattutto la legge 28 febbraio 1990 n. 39 o legge Martelli.
Tra il 1966 e il 1972 sono varate alcune procedure regolamentari destinate a disciplinare l’accesso al lavoro di addette e addetti ai servizi domestici. In particolare, nel 1972 la circolare 30 dicembre n. 37/107 facilita la concessione dell’autorizzazione al lavoro per questo settore ma prevede come condizione l’impiego a tempo pieno, ossia in coresidenza. Il 17 dicembre 1979 è emanata la circolare n. 140/90 che, tra le altre cose, prevede che la domestica straniera live-in sia vincolata per un anno al contratto, pena l’espulsione. La circolare 51/22 IV già includeva l’obbligo annuale di continuità contrattuale per tutte le straniere e gli stranieri ma, con questo nuovo documento, si lega il settore domestico a tale clausola, a prescindere da eventuali variazioni nelle normazioni in materia di immigrazione ed estendendo l’obbligo anche al rinnovo del contratto. L’insieme di queste disposizioni demanda il completamento delle procedure di regolarizzazione alla parte datoriale. A tal fine i padroni sarebbero tenuti ad accompagnare le lavoratrici in questura e a pagare gli oneri previdenziali perché il permesso di soggiorno possa essere confermato. Tuttavia, questi passaggi sono terminati solo in rarissimi casi.
Le menzionate circolari rappresentano interventi significativi poiché, da un lato, stimolano la mobilità in entrata, riconoscendo la presenza e crescita dei flussi e introducendo facilitazioni per l’ingresso di chi si impieghi come lavoratrice domestica. Dall’altro lato, creano segregazione occupazionale e costringono le straniere nel rapporto di coresidenza senza possibilità di rescissione del contratto, a prescindere dalle condizioni di lavoro e di vita che si incontrino. Inoltre, ne accrescono vulnerabilità e minacciabilità, poiché legano la loro regolarizzazione alla responsabilità dei datori che, però, non sono né controllati né sanzionati. Prende forma un esercizio di coercizione pubblica tradotto nell’immobilizzazione per legge delle domestiche straniere, che rafforza l’arbitrarietà datoriale e incide sulle possibilità di praticare coercizione nel privato delle case.
L’assenza di controllo statuale e l’ampiezza della libertà decisionale dei datori si traducono in una gestione a piacimento del lavoro domestico che gioca molto sul controllo delle mansioni concrete, del tempo e dello spazio di lavoro e di vita delle straniere. Questa organizzazione quotidiana implica una variabilità dei compiti che sono imposti ogni giorno sulla base dell’esigenza datoriale. A tale incertezza si accompagna la possibilità di estensione del tempo lavorativo, senza alcun rispetto dei parametri contrattuali. I padroni aumentano deliberatamente le ore di lavoro e, sistematicamente, riducono il tempo libero e di riposo. Se si parla dei tempi adibiti allo svolgimento delle mansioni quasi la totalità delle intervistate evidenzia che “non c’è orario”. Quando la conversazione si sposta sul tempo libero in molte ne confermano la consistente riduzione rispetto a quanto contrattualmente dovuto. Mediamente, anziché le 12 ore libere previste per il giovedì e per la domenica vengono concesse circa 3 o 4 ore e nella maggior parte dei casi le lavoratrici sono costrette a rientrare per cucinare i pasti e pulire stoviglie e cucina.
Altrettanto forte è l’ingerenza sullo spazio: limitazione, accessibilità e il contrario di entrambe sono i criteri intorno a cui ruota la sua gestione. Anzitutto i datori non danno quasi mai le chiavi di casa e ciò incide sulla possibilità di entrare o uscire e si lega alla citata questione della restrizione del tempo libero: il più delle volte alle lavoratrici sono arbitrariamente imposti coprifuochi che devono essere rispettati per potere rientrare nell’ambiente domestico.
Durante la giornata lavorativa spesso i datori scelgono se e quando le lavoratrici possono transitare nei differenti spazi della casa per svolgere le varie attività richieste.
Pochissime tra le intervistate hanno avuto la possibilità di avere una stanza privata. In molte sono costrette a dormire sul divano, nelle stanze dei bambini, in spazi angusti arrangiati come camere da letto. Quand’anche capiti che la domestica abbia titolo a una sua stanza, anche in tal caso non le vengono date alcune chiavi e non esiste privacy. Zuleika, lavoratrice eritrea, non ha una stanza dove dormire e dorme sul divano. Questa disposizione spaziale (durata per 14 anni) è resa possibile dal fatto che “io ero l’ultima ad andare a dormire, io ero la prima ad alzarmi”, per lavorare. Come dice Lina, lavoratrice capoverdiana, “te hai la stanza e noi dormiamo dove ci metti” e “io avevo un letto nel tinello, quindi poi sai, volente o nolente, appena serviva qualcosa ti dovevi alzare perché non avevi una stanza tua. Ed è stata dura, molto molto dura”.
La coercizione datoriale trova vigore anche nell’adozione di dispositivi coercitivo-disciplinari e di strumenti punitivi che agiscono direttamente sui corpi fisici e spesso si collegano al controllo spazio-temporale. Più lavoratrici mi hanno raccontato di essere state lasciate a dormire sullo zerbino per non aver rispettato i citati coprifuochi. Joana, domestica capoverdiana, è stata picchiata con un bastone dal proprio padrone per via di un ritardo di 20 minuti. Il fatto di non avere una stanza ha facilitato il fatto che il datore di lavoro di Lina potesse decidere se e quando entrare nel tinello e abusare sessualmente di lei. La violenza agita sui corpi fisici passa anche da un’interpretazione di questi stessi corpi come corpi/persone femminilizzate e razzializzate e ciò può diventare elemento fondamentale nel determinare alcune specifiche forme di abuso, come lo stupro.
Le lavoratrici si riferiscono frequentemente a un profondo senso di prigionia che però, non di rado, si accompagna all’idea di essere parte integrante delle famiglie padronali. Ad esempio, Amna, lavoratrice etiope, sottolinea che “era davvero una prigionia, era proprio una prigione…come fai, prima sei libera, poi sei in prigione. Sei proprio una schiava” ma poi aggiunge: “quel lavoro era duro ma sono durata comunque 14 anni con questa famiglia, perché sai poi ti scordi, poi litighi, ma poi ti fa le coccole e tu cosa fai? Si crea anche affetto”. Anche Andreia, capoverdiana, mentre mi parla della pesantezza del suo lavoro mi dice che “si doveva fare tutto. Pretendevano tutto!”, ma “loro sono la mia famiglia quindi alla fine va bene anche così”.
Lavorare e vivere in case altrui, al di là del peso delle condizioni cui si è sottoposte, non rende aliene dallo sviluppo di legami affettivi che diventano ulteriore dispositivo di coercizione emozionale. Le lavoratrici sono quotidianamente immerse nelle relazioni intime delle famiglie e ne fanno attivamente parte poiché, volenti o nolenti, sono coinvolte da una varietà di scambi emozionali per il solo fatto di abitare il medesimo spazio. Se i legami possono strutturarsi di per sé in virtù di una stretta condivisione della quotidianità, il loro carattere intrinsecamente gerarchico comporta una forte malleabilità a vantaggio datoriale. Con le parole della domestica filippina Concepcion: “a volte ti senti di famiglia, però è così quando interessa a loro e basta”. Ciononostante, questo non preclude la bontà dei sentimenti che si creano. Tra le varie implicazioni si nota una tendenza all’aumento della soglia di tolleranza delle lavoratrici, che subiscono ma giustificano o talvolta non riconoscono l’eccesso di lavoro cui sono sottoposte o altri tipi di abusi datoriali. Quando Edna, lavoratrice capoverdiana, mi dice di aver per molto tempo accettato di essere pagata meno del dovuto e di non avere i propri contributi saldati sottolinea che “andava bene così perché a quel punto preferivo l’amicizia da quella famiglia”. Elsa, domestica filippina, da 38 anni vive con la stessa famiglia ma da 12 anni è formalmente in pensione e continua a lavorare e abitare con la medesima famiglia, non pagata e talvolta ricompensata con “alcuni regalini”. Quando le mostro perplessità mi dice che “va tutto bene, loro mi hanno accolta, loro sono la mia famiglia”. La coercizione emozionale vincola ulteriormente le donne migranti allo spazio domestico e alle famiglie datoriali e implica l’accettazione di una sostanziale condizione di subalternità.
Ritengo che da questa rapida restituzione di dati e testimonianze emerga una coercizione diffusa che non può essere limitata allo spazio pubblico o a quello privato ma che si articola nella relazione tra le due sfere e trae forza dalla loro separazione e dall’invisibilizzazione di ciò che avviene tra le quattro mura. Per comprendere in profondità queste dinamiche è necessario lasciarsi guidare dalle voci delle domestiche straniere, per varcare la soglia di case costruite come luoghi privati ma espressione simbolica e concreta di una più ampia geometria dei rapporti di potere sociale. In questi interstizi trova espansione una violenza radicale che ancora si stenta a riconoscere e che è attivamente celata da una complicità tra Stato e padroni, tra istituzioni pubbliche e famiglie italiane. Nel tempo mutano i soggetti coinvolti in questo tipo di rapporto di lavoro e si riconfigurano in parte i dispositivi messi in gioco dallo Stato nella sua gestione ma il punto resta sempre lo stesso: l’oppressione sociale trova un luogo ideale per essere appresa, radicarsi all’interno ed estendersi oltre le quattro mura. Dentro casa il suo esercizio è ancora più violento poiché non visto, pensato e raccontato come questione privata. Sembra assurdo ma, ancora oggi, è necessario sottolineare che il privato è politico.