Al presente
Il lavoro per le persone con disabilità. Da strumento di riabilitazione a veicolo di emancipazione e cittadinanza
Tamara Zappaterra
Dicembre 2024
Il 3 dicembre ricorre la Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità, proclamata dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 1981 con l’intento di lanciare un piano di azione mondiale di accrescimento della consapevolezza su questo tema.
Da allora è partito un processo inarrestabile di inclusione delle persone con disabilità nei vari contesti sociali e formativi, che – anche se ancora con marcate differenze tra i vari paesi nell’espressione e nell’espletamento dei diritti - ha visto il nostro paese affermarsi sul piano globale come un modello in ambito formativo, in particolare per quanto riguarda il nostro sistema scolastico. La via inclusiva chiama ugualmente anche tutti gli enti e le istituzioni a risposte che siano ispirate ai medesimi principi e siano ancorate sul piano degli interventi a modelli di evidenza scientifica e nell’ottica delle buone prassi.
Dentro a una tale cornice l’orizzonte inclusivo della via lavorativa diventa il fine ultimo della presa in carico scolastica e sociale della persona con disabilità. La possibilità di assumere un ruolo lavorativo costituisce pertanto per le persone con disabilità una delle variabili per la determinazione di un’autentica autonomia. Se un bambino disabile sarà in grado da grande di partecipare alla società con un ruolo lavorativo è una domanda cruciale all’interno della prospettiva educativa della persona con disabilità. Si tratta infatti di una domanda paventata dalle persone che stanno intorno al bambino, spesso ignorata o procrastinata a causa di una cultura sul tema ancora immatura.
Infatti, se da un lato l’impossibilità di accedere ad un ruolo lavorativo è la prova tangibile dell’immane sconfitta prodotta dal deficit, dall’altro le numerose testimonianze che attestano quanto il lavoro per il disabile non solo sia possibile, ma si connoti di risvolti positivi, contribuisce a segnare al contempo l’orizzonte per una cultura della disabilità improntata a reale e non retorica inclusione sociale. La possibilità per la persona disabile di assumere un ruolo lavorativo è un tema che oggi può essere a buon diritto indagato in maniera pluridisciplinare dagli ambiti pedagogico, psicologico, sociale, economico, del diritto e della progettazione urbanistica e degli ambienti. All’interno della riflessione pedagogica il tema dell’inserimento lavorativo e, ancor più, dell’orientamento al lavoro per la persona con disabilità, costituiscono parte integrante di una concettualizzazione più ampia, quella relativa all’assunzione dell’identità adulta, alla costruzione identitaria, all’autodeterminazione, alla socializzazione e alla cittadinanza della persona con disabilità.
Il lavoro coinvolge lo statuto identitario della persona disabile, come di qualunque altra persona, assumendo per quella una valenza ulteriore. Da un lato ab intra, cioè sul versante intrapsichico, come attestano ricerche in atto che mostrano quanto la pratica lavorativa non solo investa la percezione di sé, ma addirittura contribuisca a crearla o a rafforzarla.
D’altro canto, il ruolo lavorativo assume una grande importanza ab extra, in quanto riguarda la socializzazione adulta, l’indipendenza economica, l’autonomia dalla famiglia di origine e, soprattutto, investe il ruolo sociale e civile della persona, connotandosi in questo senso di un grande valore emancipatorio.
Il ruolo lavorativo del disabile produce un cambiamento maturativo e il processo di crescita necessario per un rafforzamento identitario, mentre sul piano economico tali persone si trasformano da soggetti assistiti a soggetti produttivi, che esercitano i propri diritti di cittadinanza. Il lavoro, dunque, segna l’inclusione della persona disabile, la sua vera entrata in società, dopo quella della scuola che sicuramente è da considerarsi in tal senso propedeutica, ma che tuttavia ha i connotati ancora di un ambiente protetto1.
In passato il tema del lavoro della persona disabile è stato oggetto di riflessione in un ambito ben preciso, che oggi potremmo anche chiamare educativo, recuperando alla pedagogia speciale i suoi prodromi nell’ambito psichiatrico e psicosociale, ma che non aveva l’ampiezza di respiro della prospettiva educativa attuale. In passato il lavoro è stato utilizzato nella riabilitazione delle malattie psichiatriche con la finalità di contenimento del paziente tenuto in contesto istituzionalizzato e con la finalità sociale di controllo della devianza.
Ad inizio Ottocento vengono emanate le prime leggi sull’assistenza ai malati mentali, che si devono allo psichiatra Philippe Pinel. I soggetti erano sì istituzionalizzati, ma l’internamento costituiva una transitoria condizione di riabilitazione e non più una definitiva esclusione dalla società. L’attività presentava programmi di autonomia e indipendenza, perseguita attraverso una combinazione di attività fisica e intellettuale in cui la regola esterna era mezzo per ricostruire il caos interno.
A metà Ottocento Edouard Séguin iniziò a rendersi conto dei benefici che l’ergoterapia produceva su queste persone e i metodi utilizzati presso la “Scuola Séguin fisiologici” di New York furono tesi allo sviluppo dell’autonomia e dell’indipendenza. Lo studioso sancisce, tra i primi, l’educabilità delle persone disabili, proprio a partire dal lavoro e dal movimento. Aveva compreso che i loro comportamenti inadeguati erano la diretta conseguenza di condizioni di vita disagiate, quelle dell’istituto, il quale finiva per modellare la loro fisionomia e i loro atteggiamenti in un comportamento fortemente stereotipato.
Alla fine dell’Ottocento in Italia vengono istituite le prime colonie agricole, in cui la cura si lega al lavoro, come scrive Eugenio Tanzi, uno dei più insigni psichiatri italiani vissuti tra Otto e Novecento:
il lavoro, specialmente all’aria libera o in locali ariosi e salubri, rallegra i malati di mente, li rende più calmi, più soddisfatti di se stessi. […] il lavoro diventa anche un mezzo di cura. Nei manicomi dov’è organizzato il lavoro, la mortalità è più scarsa, la coercizione è ridotta ai minimi termini, e le guarigioni sono più numerose2.
L’importanza del lavoro viene quindi riconosciuta per la riabilitazione delle malattie mentali in un’epoca in cui il disabile è ritenuto ancora incapace di provvedere a se stesso e oggetto pertanto di assistenzialismo. La diversità biologica incontra una forte cultura della normalizzazione. Si insiste molto sul lavoro quale principale fattore terapeutico.
Negli anni ‘20 del Novecento la comparsa dell’ergoterapia si configura come modalità per occupare il tempo dei malati e prevenirne il deterioramento da inattività. L’obiettivo educativo era di strutturare la giornata del ricoverato, fornendo ritmi e tempi alla sua psichiatrici. In questa battaglia trova un ampio spazio l’aspetto del lavoro, poiché è visto come strumento per la reintegrazione o l’integrazione del malato nel tessuto sociale e produttivo. Il movimento creato da Basaglia, oltre ad aver generato una riflessione su questi temi di enorme portata e oltre al noto esito della chiusura definitiva delle istituzioni psichiatriche, ha avuto il merito di dare luogo ad esperienze interessanti anche rispetto all’area lavoro, come la costituzione delle prime cooperative e i numerosi interventi di riabilitazione socio-lavorativa attivati da parte degli enti locali. La psichiatria di quegli anni ha allargato lo sguardo oltre l’istituzionalizzazione e ha accolto istanze educative molto forti e di grande respiro: la riabilitazione psichiatrica è stata
l’esito dell’incontro e dell’assunzione da parte della psichiatria di tensioni e istanze educative; di una psichiatria che, abbandonando un modello reclusorio, da una parte ha cercato di ritrovare frammenti e strutture di soggettività oltre la maschera del paziente, dall’altra ha cercato l’incontro con i contesti di vita quotidiana di questo3.
Il lavoro cominciò quindi ad occupare un posto rilevante nei programmi riabilitativi a favore dei pazienti psichiatrici sia perché sul piano culturale e sociale rappresentava un’esperienza complessiva di vita, in quanto era riconosciuto come importante elemento per la costruzione identitaria, l’autostima, l’appartenenza ad una comunità sociale, l’autonomia e la contrattualità sociale; sia perché a livello tecnico, il lavoro può essere considerato come “strumento” per “produrre” in senso economico, sociale e psicologico.
La riabilitazione socio-lavorativa ha avuto quindi l’obiettivo di sostenere la persona, a partire dai suoi bisogni e dalle sue capacità, nel percorso di recupero e sviluppo di abilità sociali e lavorative. Da un’ottica assistenzialistica si è passati ad un’ottica di presa in cura globale che segnerà la possibilità di riscatto della persona disabile per il suo inserimento sociale, fino ad investire il suo ruolo sociale più ampio e il suo status identitario.
Il lavoro, come mezzo privilegiato della riabilitazione psicosociale, ha superato i limiti della riabilitazione tout court ed è sfociato nella riflessione più ampia intorno all’autodeterminazione della persona disabile, alla sua identità adulta e alla sua partecipazione alla cittadinanza. Il lavoro è dunque entrato all’interno del concetto di abilitazione, inteso come quel processo per identificare, prevenire e ridurre le cause della disabilitazione e nello stesso tempo come processo per aiutare l’individuo a sviluppare ed usare le proprie doti e capacità, così da acquisire fiducia e stima di sé attraverso i successi disordinata esperienza di psicotico. Accanto all’ergoterapia, criticata per la chiusura all’interno del circuito istituzionale, si è sviluppata la terapia occupazionale, svolta sia all’interno dei manicomi, sia in laboratori protetti esterni dove ai pazienti venivano affidate attività ripetitive su commissione di ditte esterne. Si cominciava a intravvedere la possibilità per la persona affetta da disturbi psichici, di svolgere un’attività di tipo lavorativo con obiettivi riabilitativi legati al recupero di abilità sociali, relazionali e lavorative.
È alla fine degli anni Sessanta del Novecento che il movimento antiistituzionale promosso da Franco Basaglia ha avviato una battaglia per il raggiungimento dei diritti civili dei pazienti conseguiti nei ruoli sociali. In ambito abilitativo e riabilitativo va affrontata la ricerca delle abilità, intesa non come un quantum, ma come qualità della vita.
Il concetto di ‘qualità della vita’ è un concetto complesso, non racchiudibile in un costrutto monodimensionale, ma che in buona parte coincide con la funzionalità di ruolo: come la persona vive e lavora, qual è il suo ruolo riconosciuto nella società. O Occorre perciò concentrarsi più sulle abilità che sulle disabilità, per poter riconoscere le capacità e i desideri della persona, allo scopo di costruire su questo un progetto educativo. Si deve uscire pertanto dalle pieghe degli specialismi e dei protocolli per recuperare la persona nella sua globalità, per ritornare all’intero corpus delle dimensioni che caratterizzano la persona4.
La formazione al lavoro e la socializzazione vissuta nello stesso costituiscono insieme un processo assai ampio che coinvolge in toto la persona modificandone l’assetto delle strutture psicologiche attinenti alla sua identità personale. Quando l’inserimento lavorativo va a buon fine, il ruolo esperito dal soggetto nell’esercizio lavorativo è un ruolo positivo. Ciò ha una ricaduta molto positiva sulla strutturazione della personalità, mentre sappiamo quanto l’esperienza di reiterati insuccessi possa modificare le strutture psicologiche del soggetto deteriorandone i processi metacognitivi, cioè di autoriflessione sulle proprie capacità di organizzazione cognitiva e relazionale5.
Al contrario l’ambiente lavorativo, così come quello familiare, hanno un ruolo centrale per fare esperienze che consentono di valutare direttamente in prima persona i propri successi e insuccessi. La maturazione affettiva, la crescita nella relazione interpersonale e, parallelamente, la conquista di capacità operative specifiche avverrebbero in modo più marcato nella realtà lavorativa che in altri setting di apprendimento6. Il lavoro della persona disabile è in grado di sollecitare la motivazione verso una condizione di crescita più matura e più autonoma. Esso è vissuto come affermazione di sé e recupero di dignità, come crescita personale e balzo nella cittadinanza riconosciuta7.
Le potenzialità insite nell’integrazione lavorativa sono dunque molteplici: partecipazione sociale, rafforzamento identitario, status adulto, assunzione di responsabilità, autodeterminazione, espressione di cittadinanza. Anche la Convenzione ONU dei diritti delle persone con disabilità del 2006, ratificata dall’Italia con la Legge 18/2009, indica la promozione di programmi di abilitazione e riabilitazione anche nel campo dell’occupazione, auspicandone la precocità e la condivisione multidisciplinare. Inoltre l’articolo 27 della Convenzione è espressamente dedicato al tema del Lavoro e occupazione. Esso si rivolge alle persone disabili che cercano un’occupazione, a quelle che già ce l’hanno, scelta o accettata volontariamente – a quelle che avendola, necessitano della tutela dei propri diritti, a coloro che acquisiscono una disabilità sul posto di lavoro. Si stima che l’attuazione delle disposizioni in materia di lavoro derivanti dalla Convenzione interessi circa 470 milioni di persone in età da lavoro in tutto il mondo8.
La Convenzione esprime il diritto delle persone con disabilità ad avere condizioni lavorative giuste, ad essere inserite in ambienti di lavoro con le altre persone, a non essere discriminate sul posto di lavoro, ad avere pari opportunità di avanzamento professionale.
Viene posta una particolare attenzione alla possibilità di accesso ai programmi di orientamento tecnico-professionale e ai servizi per l’impiego. Emerge quindi come il tema del lavoro sia affrontato secondo un’ottica formativa. Si sottolinea infatti l’importanza di una formazione professionale iniziale e continua, in quanto dalle ricerche emerge come la mancanza di tali iniziative risulti alla base di una scarsa presenza dei disabili nel sistema economico. Si promuove la definizione e la realizzazione di politiche e programmi di azione positiva che incoraggino i datori di lavoro ad assumere persone con disabilità. È invalso infatti il pregiudizio che le persone con disabilità siano improduttive. Gli studi mostrano invece una serie di dati positivi sul lavoro delle persone disabili: alte prestazioni lavorative, mantenimento del posto di lavoro più a lungo, presenza più costante rispetto ai loro colleghi. Si rileva inoltre che nelle aziende in cui sono presenti persone disabili il clima aziendale e la coesione di gruppo migliorano.
1T. Zappaterra, “Lavori di-versi. La disabilità adulta e il rafforzamento identitario”, in V. Boffo (a cura di), Di lavoro e non solo. Sguardi pedagogici, Simplicissimus, Milano, 2012, p. 173).
2E. Tanzi, Trattato delle malattie mentali, Società Editrice Libraria, Milano, 1905, p. 64.
3M. Cardini, L. Molteni, N. Doveri, Integrazione lavorativa e fasce deboli. Dagli aspetti metodologici alla pratica educativa, Carocci, Roma, 2005, p. 74.
4L. Cottini, D. Fedeli, “Qualità della vita in età avanzata per la persona con disabilità”, in L. Cottini (a cura di), Disabilità mentale e avanzamento d’età, FrancoAngeli, Milano, 2008.
5G. Sarchielli et al., Senza lavoro, il Mulino, Bologna, 1991.
6E. Montobbio., Il viaggio del Signor Down nel mondo dei grandi, Del Cerro, Pisa, 1994.
7L. Parolini, “Disabilità e autonomia”, in R. Medeghini (a cura di), Disabilità e corso di vita. Traiettorie, appartenenze e processi di inclusione delle differenze, FrancoAngeli, Milano, 2006.
8P. Baratella, E. Littamé, I diritti delle persone con disabilità. Dalla Convenzione Internazionale ONU alle buone pratiche, Erickson, Trento, 2009, p. 147.