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Cos'è un salario giusto? Uno sguardo da molto lontano.

Andrea Caracausi

marzo 2025

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Il 15 novembre scorso è scaduto il termine per recepire la direttiva Ue circa il salario minimo. Almeno in Italia, il tema è caduto nel dimenticatoio, per l’assenza di azione del governo in un panorama generale che vede alcuni Stati membri dell’Unione Europea in ritardo e altri invece che hanno recepito la direttiva, scegliendo tra salario minimo legale o contrattazione collettiva. La direttiva s’inseriva in un quadro politico che avrebbe dovuto interrogarsi sui meccanismi di formazione delle diseguaglianze salariali, negli ultimi anni decisamente aumentate. A essere coinvolti nel dibattito non dovrebbe essere solo l’autorità statale, ma tutte quelle imprese che amano definirsi socialmente responsabili. Il tema della remunerazione, del resto, interseca diversi mondi: dal lavoro dipendente e subordinato a quello degli appalti, dalle cooperative alle piattaforme digitali fino alle filiere del commercio equo-solidale.

Eppure, i termini del confronto sono rimasti ancorati fra chi vede nel salario minimo un freno alla povertà e chi, invece, ne osserva i limiti. Gli snodi maggiori includono i valori utilizzabili per indicare il livello di salario minimo, il ruolo della contrattazione, la necessità di legarlo all’inflazione, la rappresentatività. Talvolta, al salario minimo viene contrapposto il salario giusto (o equo): durante la relazione dell’Assemblea 2023 lo stesso Presidente di Confindustria Bonomi richiamò l’importanza di quest’ultimo, rievocando l’obbligo insito nella nostra Costituzione1, la quale, all’articolo 36, pone al centro la necessità di corrispondere “una remunerazione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro profuso” e sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia “un’esistenza libera e dignitosa”.

 

Tuttavia, su che cosa sia un giusto salario si è discusso per molto tempo. Nella seconda metà del Duecento, durante un processo di forte salarizzazione dell’economia, Tommaso d’Aquino aveva posto l’attenzione sull’importanza di remunerare in maniera giusta ed equa gli operai. A partire dalla sua Summa Theologica, in quelle che possiamo chiamare le “origini” circa il pensiero attorno al giusto salario, è stata la Seconda Scolastica, fra Cinque e Seicento, a portare la discussione a una sorta di “maturità” prima che, complice anche il diffondersi delle teorie fisiocratiche e dell’economia classica, l’elemento morale fosse espunto dalla teoria sui salari. Sarà il diffondersi delle conseguenze economico-sociali della rivoluzione industriale (in Inghilterra prima e nel resto d’Europa poi) a far “riscoprire” il tema del giusto salario all’interno vuoi del movimento socialista, vuoi della dottrina sociale della Chiesa, vuoi della politica economica fascista fra anni Venti e Trenta. Una riscoperta che sfociò anche nel dettame dell’articolo 36 della Costituzione più sopra menzionato, frutto dell’accordo fra istanze democristiane progressiste e social-comuniste in seno all’Assemblea costituente.

Vorrei qui fare emergere alcuni elementi centrali dei dibattiti sui primi momenti dell’avventura dell’idea del giusto salario (fino grosso modo alla metà del Settecento), rimandando all’ampia bibliografia sul tema per i dovuti approfondimenti. Contestualizzare l’idea di giusto salario può aiutare a evitare il ripetersi di discussioni già avvenute in diversi momenti e prendere coscienza della carica politica e mutevole che una concezione di “giusto” porta con sé.

 

Se pensiamo alle idee di giusto salario in età medievale e moderna non possiamo non ricordare il punto di partenza: il salario. Quest’ultimo designava ciò che veniva offerto per retribuire un’opera o una fatica, “quasi fosse un certo prezzo di essa”, per usare le parole di S. Tommaso d’Aquino. Il lavoro, infatti, non era una merce come le altre. Sebbene alla base del contratto di lavoro vi fosse un contratto d’affitto, vi era una differenza fondamentale tra locare un’opera (o un servizio) e un qualsiasi altro bene materiale. Ancora a metà Seicento, Lanfranco Zacchia, giureconsulto romano, definiva il salario come la “remunerazione dovuta alla retribuzione del lavoro”. Anche qui venivano usati preferibilmente i termini “remunerazione” e “retribuzione”, e non prezzo.

Dal tardo Medioevo, il concetto di quasi prezzo per indicare il salario era una costante. Inoltre, l’assenza di una correlazione fra prezzo e salario era evidente nell’attenzione che molti pensatori portavano sulle tempistiche del pagamento, sulla necessità di versare “prontamente” il salario e sul divieto di pagare in natura anziché in moneta il salario. La posizione debole dei salariati all’interno della società, per il fatto di vivere esclusivamente del proprio lavoro manuale, è il primo movente per rispettare gli accordi. Il giusto salario, infatti, indicato nell’accordo e la giustizia dell’epoca invitava a rispettare quei patti.

 

A volte, però, il semplice accordo non bastava. Il secondo elemento di un giusto salario era il suo rapporto con la “sussistenza”. Poiché l’obiettivo del lavoro era il sostentamento dell’individuo e poiché il lavoro aveva un carattere di necessità, senza il quale non si sopravviveva, allora il lavoro era l’unico mezzo per sfuggire onestamente alla fame. Secondo diritto di natura - secondo sempre l’Aquinate - l’uomo doveva vivere del suo lavoro e, quindi, il salario non poteva definirsi giusto se non si adeguava ai suoi bisogni di vita. Il salario non poteva scendere sotto la soglia minima per la sopravvivenza e l’accordo stesso non poteva essere considerato come stipulato in maniera libera se il valore del salario era inferiore la soglia minima. Ancora fra Cinque e Seicento - seppur molti autori, come Zacchia, tendessero a dare più valore ai contratti individuali - si sottolineava l’importanza di un salario sufficiente a mantenere il proprio status sociale. Neppure lo Stato, quando operava come datore di lavoro, poteva ritenersi sciolto da norme oggettive nel determinare il compenso. Non valeva, in sostanza, il principio secondo cui un basso salario poteva essere giustificato dalla disponibilità sul mercato di numerosi lavoratori che potevano svolgere quel lavoro a un basso prezzo. A partire da questo periodo si parla inoltre esplicitamente (Corduba e de Lugo) di un mantenimento sufficiente per sé (colui che presta la propria opera) e per la sua famiglia, in maniera conveniente al proprio statuto sociale.

 

La sola sussistenza non era sufficiente per un giusto salario e, comunque, non era uguale per tutti. Il terzo elemento di un giusto salario era il suo legame con la quantità e la qualità del lavoro. In primo luogo, il salario non doveva essere uguale per chi lavorava poco e per chi lavorava molto, ma doveva essere proporzionato al tempo di lavoro alle fatiche profuse. A questi due criteri oggettivi, però, si aggiungevano criteri soggettivi, come la perizia, l’industria e l’abilità dell’operaio. Fin dagli scritti dell’Aquinate, il concetto di “merito” è introdotto alla base della remunerazione. Secondo il merito era poi possibile superare anche eventuali tetti salariali imposti dai corpi di mestiere se i datori di lavoro valutavano il lavoro finale migliore dell’importo fissato. All’inizio del Seicento, i mercanti di lana di Padova imposero un tetto massimo di salario per i maestri tessitori. Tuttavia, quei limiti potevano essere superati se il mercante avesse riconosciuto che il maestro tessitore “merita un salario maggiore”.

La qualità della persona indicava inoltre il suo particolare ruolo all’interno della società. Come ricordava, fra gli altri, Bernardino da Siena (1380-1444), i giusti salari erano elargiti “secondo la sua [del lavoratore] condizione”, un’espressione che veniva ripresa spesso nelle gerarchie corporative, dal momento che le remunerazioni dei maestri erano superiori a quelle dei lavoranti, e quelle di questi ultimi erano maggiori a quelle dei garzoni.

 

Da un lato un giusto salario dipendeva da criteri oggettivi come il tempo di lavoro, la fatica profusa, l’andamento economico (incluso il gioco della domanda e dell’offerta). Dall’altro lato, la qualità delle persone e le loro capacità portavano con sé un criterio soggettivo del giusto salario, basato sulle capacità individuali e sulla posizione sociale del lavoratore. Seguendo la tradizione del diritto canonico e della prima e seconda Scolastica, pagare un giusto salario era un’azione sia di giustizia commutativa (proporzionalità tra pagamento e prestazione) sia di giustizia distributiva, a seconda dello status delle persone, per garantire un’esistenza dignitosa in relazione al livello sociale di appartenenza. In questi elementi si vede tutto il delicato equilibrio fra status e contratto, fra rispettare le gerarchie sociali e remunerare in base al merito: un sistema che forse pensiamo scomparso, ma che non possiamo ignorare di fronte alle condizioni sfavorevoli di alcune figure sul mercato del lavoro, come donne e immigrati.

 

Un quarto elemento era il difficile ruolo dello Stato e della giustizia sui salari. Questo dipendeva non solo dal limitato ruolo del giudice nella fissazione del giusto salario, quanto dall’importanza dell’accordo e della consuetudine nello stabilire i giusti salari. La consuetudine, infatti, comprendeva due aspetti: il ruolo dei testimoni e la località del giusto salario. Le cause discusse nei tribunali dell'epoca spesso vertevano sulla determinazione dei salari abituali per specifici mestieri, con i giudici che ricorrevano a testimonianze per stabilire le pratiche comuni in diverse località e contesti lavorativi. Questo tipo di giustizia si riferiva in maniera forte al contesto locale, che comprendeva gli statuti civici e delle corporazioni, ma che era frutto di una contrattazione continua fra i diversi corpi che componevano la società.

 

Quali erano i mezzi migliori per stabilire un giusto salario? Fin dalla prima Scolastica si ricorreva alla stima comune (communis aestimatio). In questa valutazione si doveva tenere conto non solo dell’intensità del lavoro, della natura del mestiere e del rango del lavoratore, ma anche il suo sostentamento e il rispetto del suo status sociale. Quella stima comune, però, era il risultato di contrattazioni, individuali e collettive, da parte degli attori chiamati in causa. In molti casi i rappresentanti dei diversi corpi (mercanti, maestri, lavoranti) erano coinvolti nell’accordo che siglava la tariffa (presentata appunto come “accordo” e non come “ordinanza”). Insomma, la stima comune cambiava seguendo le tendenze del mercato locale, ma dipendeva anche dalla possibilità di avere un maggior numero di testimoni in tribunale per dimostrare le consuetudini locali. E, a volte, era necessario collegare le consuetudini all'accordo privato. La contrattazione aveva un ruolo centrale, perché era all’interno dei diversi contesti che si consolidavano le consuetudini, si legittimavano le pratiche e si confrontavano i rapporti di forza determinando il pieno riconoscimento di un giusto salario.

 

All’interno delle discussioni sul giusto salario rientrava anche il fenomeno delle “compensazioni occulte”: furti o appropriazioni di piccola entità che i lavoratori mettevano in pratica nel momento in cui si sentivano defraudati di fronte a un salario giudicato al di sotto della soglia minima. A partire dal Sei e Settecento i trattati sui contratti e sui salari sono pieni di dissertazioni su questo fenomeno. Secondo alcuni autori, la compensazione occulta era consentita solo se si trattava dell’unico modo per rimediare a una precisa ingiustizia. Altri autori, invece, la negavano e anche la Chiesa, con Papa Innocenzo XI, la giudicò scandalosa e perniciosa, negandola ai servitori negli anni ’70 del Seicento. Come è stato mostrato per il settore serico bolognese del XVIII secolo, questa tendenza a limitare o circoscrivere la liceità della compensazione occulta (in accordo con gli organi ecclesiastici) è una conseguenza anche dell’intervento sempre più incisivo del capitale mercantile nei rapporti salariali e nella loro volontà di limitare le integrazioni al reddito ed eliminare circuiti paralleli di produzione.

 

Un ultimo elemento che merita una riflessione è il rapporto fra salario minimo e salario giusto. Questa distanza è meno rigida e più sfumata di quanto sembri. Fra Cinque e Seicento alcuni pensatori della seconda Scolastica, come Molina, de Lugo e Lessio, ricordavano che il giusto salario poteva oscillare fra un massimo e un minimo ed essere corrispondente anche a quest’ultimo valore, se determinate condizioni lo necessitavano. Quel minimo, però, non era fisso, ma era sempre il risultato di contrattazioni e frutto di principi d’equità a secondo dello status sociale del lavoratore.

 

Oggi, all’interno di un sistema economico profondamente cambiato, queste discussioni sul giusto salario potrebbero apparirci lontane e distanti nel tempo. E forse è certamente così. Oppure, possiamo cogliere il loro invito per trarre qualche spunto e immaginare un futuro diverso, a partire dalle domande che legano passato e presente del giusto salario: la sua definizione, i suoi elementi (qualità e quantità del lavoro, necessità della vita, individuali o famigliari), i meccanismi di garanzia (dai mercati alla contrattazione, dalle politiche statali ai sistemi di giustizia). Questi interrogativi possono aprire ad altre domande che rimandano al legame fra diritto, morale ed economia, al significato di merito e al funzionamento dei mercati.

 

Riferimenti bibliografici

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