Al presente
Settembre 2017
Esperienze di organizzazione di lavoratori immigrati nella Francia tra le due guerre
di Maria Grazia Meriggi
Questo intervento, anche se appare nella rubrica “Al presente”, darà soprattutto informazioni sul passato che credo utili per storicizzare la questione delle migrazioni e della presenza di lavoratori stranieri nel nostro mercato del lavoro, da sempre temuti come fautori di dumping salariale e normativo e per “relativizzare” le difficoltà, ma anche le risorse, che questa presenza pone.
Si potrebbe cominciare col dire ciò che insegniamo ai nostri studenti: che le migrazioni interne e transfrontaliere sono la condizione insopprimibile dello sviluppo capitalistico (ma probabilmente di ogni sviluppo): chiunque prometta (o minacci) di vietarle vuole solo fare della propaganda ideologica. Si potrebbe cominciare col ricordare le informazioni che ci dà e le emozioni che ci comunica il giovane Engels rispetto all’immigrazione irlandese in Inghilterra. Ma più vicino a noi vorrei ricordare che in Europa negli anni fra le due guerre l’Inghilterra ha ricevuto – già dalla fine del secolo XIX – un’imponente immigrazione “imperiale”, mentre la Francia, su cui darò qui qualche approfondimento, è negli stessi anni il paese europeo con la classe operaia più multinazionale.
Sono anni, quelli prima della crisi del ‘29, in cui la Francia, che aveva subito il maggior numero di perdite umane durante la Grande guerra in proporzione alla popolazione, aveva bisogno di lavoratori “aggiuntivi” al punto che alle autorità di polizia incaricate della sorveglianza delle frontiere viene suggerito di adottare criteri più permissivi verso gli ingressi: queste stesse autorità ritenevano che questa mano d’opera potesse essere spostata più facilmente di settore in settore e sul territorio non avendo tradizioni di radicamento nel paese. Sono migranti dai dipartimenti algerini e dai paesi del Maghreb sottoposti al protettorato francese: soprattutto dall’Algeria. Ma sono soprattutto migranti dai più diversi paesi europei ed extraeuropei. Nella svolta del secolo, gli anni Novanta del XIX soprattutto, forme di xenofobia si manifestano. Gli episodi più clamorosi e sanguinosi sono quelli contro gli italiani nelle saline di Aigues-Mortes del 1893 e contro i belgi nelle miniere del Nord. In tutti i casi in cui la diffidenza per il timore di una concorrenza al ribasso sul mercato del lavoro arriva a conseguenze tragiche sono indispensabili circostanze aggravanti provenienti dall’esterno del mondo del lavoro, una pedagogia xenofoba “dall’alto”, e ognuno di questi episodi si inserisce in un contesto particolare. Nel caso di Aigues-Mortes, ad esempio, una lunga tradizione corporativa preesistente al lavoro salariato nelle saline. Ma a fare di questa diffidenza un tema organizzativo sono i sindacati gialli – vere e proprie organizzazioni di briseurs de grèves – e le leghe antisemite nazionaliste. D’altra parte, decenni di lavoro organizzativo da entrambi i lati della frontiera hanno fatto dei frontalieri belgi dei compagni di lotta temuti dalle polizie dei due paesi negli scioperi del settore tessile degli anni ’30 del territorio di Lille-Roubaix: al centro della Roubaix operaia, una rue Edouard Anseele «l’éveilleur des Flandres» ricorda questa felice cooperazione dopo anni di scontri feroci contro i “crumiri” belgi.
I movimenti sindacali socialisti hanno sempre affrontato l’emigrazione come un tema organizzativo da mettere esplicitamente all’ordine del giorno. Quando – come si è detto, negli anni Venti – queste presenze diventano consistenti, la Cgt offre innanzitutto sostegno istituzionale per facilitare la regolarizzazione e l’ottenimento delle carte di lavoro e di identità. Ma è soprattutto la Cgtu, il sindacato nato alla fine del ‘21 e legato, ma non esclusivamente, al partito comunista, con forti presenze libertarie, a investire le sue energie nell’organizzazione degli immigrati. Con una precisazione. In un articolo del 30 gennaio 1927 sull’«Humanité», il dirigente della Cgtu Julien Racamond scrive che il suo sindacato era contrario all’immigrazione collettiva già assunta, organizzata da imprenditori e governi sotto il segno dei bassi salari e dell’isolamento dei lavoratori, ma sosteneva invece l’immigrazione libera che permetteva di entrare in contatto con gli immigrati e di organizzarli e che quindi non costituiva, perché organizzabili, una minaccia contro gli “autoctoni” nel mercato del lavoro.
Gli immigrati, che arrivano di solito lungo filiere familiari o di gruppo, tendono a incontrarsi e a vivere a lungo negli stessi quartieri, il che può anche significare chiudersi nella loro comunità. La Cgtu cercò di trasformare questo rischio in una possibile risorsa inserendosi in quelle reti e offrendosi di organizzarle come tali all’interno del sindacato con “sezioni etniche”. Questa sezione di lavoro si chiamò Main d’oeuvre étrangère, in seguito Main d’oeuvre immigrée (MOE, MOI). Essa si struttura a Parigi a partire dall’inizio del ‘23. Nel ‘24 a Lione, Marsiglia, Bordeaux, Lille e Nancy, e poi tendenzialmente in tutto il paese, vengono fondati uffici provinciali. Come interessare gli operai emigrati, spesso legati a reti comunitarie che potevano isolarli, a partecipare alla vita associativa?
La Cgt e le Bourses offrivano servizi anche elementari ma essenziali, quali il disbrigo di documenti per le carte d’identità, l’accesso ai sussidi, la mediazione linguistica e gli interventi, come si è detto, presso i pubblici poteri. Lo stesso faceva la Cgtu, attenta soprattutto alle condizioni contrattuali. Questa però si impegna a trasformare in risorsa la tendenza degli emigrati a rinchiudersi nelle loro comunità.
Un articolo dell’«Humanité» del 5 aprile 1928 riassumeva le preoccupazioni largamente condivise dalla Cgtu. «Dalla fine della guerra il movimento migratorio ha assunto una grande ampiezza e dalle statistiche del Bureau international du travail osserviamo che nel 1921 ci sono stati 1.401.290 immigranti e nel 1926 1.498.230. […] Dedichiamoci a organizzare solidamente questi produttori che non sempre vi sono inclini, prendiamo contatto con essi per rivendicazioni immediate. Mettiamoci al lavoro con metodo e serietà e faremo un grande passo avanti nell’organizzazione delle masse straniere gettate sul mercato del lavoro. Facciamo anche capire alla massa disorganizzata dei lavoratori francesi che la fraternizzazione fra la MOE e tutti i produttori sarà per noi una forte arma per combattere il padronato che invece è sempre unito contro la classe operaia. Lottiamo efficacemente. Aumentiano costantemente l’influenza della Cgtu e della nostra potente Internazionale sindacale rossa; non solo aumenteremo gli effettivi ma avremo lavorato per l’organizzazione e la difesa di tutta la classe operaia».
Alle soglie della crisi, nella regione parigina operavano 12 comitati intersindacali composti da lavoratori di nazionalità: armena, bulgara, cecoslovacca, cinese, ebraica, italiana, jugoslava, polacca, rumena, russa, spagnola, ungherese.
Particolarmente significativa l’azione della MOI con gli operai ebrei polacchi, ungheresi, rumeni – la numerosa emigrazione di operai ebrei dalla “zona di residenza” dell’allora impero russo si era interrotta con la Rivoluzione – che in un’atmosfera di intensa propaganda xenofoba e antisemita fa arretrare questo sanguinario pregiudizio nei luoghi di lavoro grazie alla forte sindacalizzazione dei proletari ebrei di quei territori fortemente influenzati dal Bund e dal partito comunista, magari rivali in patria ma capaci anche di cooperare nell’emigrazione grazie a una stampa in yiddish (ricordo qui la «Naïe Presse») la cui rete di diffusione avrà un ruolo molto importante nella lotta antifascista.
Insomma: una esperienza di organizzazione capillare dei migranti a partire dalle reti di sociabilità preesistenti, che non rimuove il fatto che nel mercato del lavoro i migranti possano essere un problema e che trasformarli in una risorsa richieda un lavoro organizzativo tenace. Non solo (e nemmeno prevalentemente) nelle grandi imprese, ma anche nel lavoro precario e disperso dei cantieri edili, fra i mattonai, i fornaciai…
D’altra parte il movimento operaio americano sarebbe impensabile senza questi protagonisti (italiani ed ebrei in prima fila).
Queste osservazioni non vogliono essere un invito a una attualizzazione del passato – tra l’altro queste osservazioni sono semplificate dalla necessità di essere sintetiche –, ma un richiamo alla possibilità di ripercorrere esperienze di organizzazione che sole possono dare corpo e efficacia alla solidarietà.
Chiunque di noi – come lavoratore, come lavoratrice organizzati, come storico e storica che collaborano con camere del lavoro e organizzazioni sindacali per ricerche – sa che è quello sindacale l’ambiente laico che – con molti limiti, certo – ha affrontato più direttamente la socializzazione e l’integrazione attraverso il conflitto della prima generazione di emigrati. Rendere visibili ma soprattutto costanti e consapevoli questi interventi è forse uno strumento efficace contro l’ideologia xenofoba che rischia di sommergerci tutti.
Suggerisco qui pochissimi lavori da cui ricavare altri suggerimenti bibliografici:
- Gérard Noiriel, Le massacre des Italiens. Aigues-Mortes, 17 août 1893, Paris, Fayard 2010
- Bastien Cabot, À bas les Belges. L’expulsions des mineurs borains (Lens, août-septembre 1892), Rennes, Presses Universitaires de Rennes 2017
- Maria Grazia Meriggi, Les mondes ouvriers parisiens dans l’entre deux-guerres entre fraternité et xénophobie, in corso di pubblicazione, Nancy, l’Arbre bleu éditions