Discussioni #12

Stefano Bartolini e Silvia Inaudi discutono:

Luisa Passerini,

Torino operaia e fascismo. Una storia orale,

Officina Libraria, Roma 2024

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La ripubblicazione del libro di Luisa Passerini, dopo quaranta anni dalla sua uscita, è un gradito, e soprattutto utile, ritorno. Il volume vide la luce negli anni della prima fioritura della storia orale in Italia, stagione situata tra gli inizi degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, come metodologia di raccolta e area di analisi e ricerca scientifica compiuta. Nel 1978 era già uscita, sempre a cura della stessa Passerini, un’altra pietra miliare, Storia orale. Vita quotidiana e cultura materiale delle classi subalterne, che raccoglieva i contributidegli oralisti britannici, dove ampio spazio aveva la storiadella “gente comune” e in cui si poteva respirare un’aria di Labour History1.

Non è privo di significato che in quello stesso 1984 uscisse anche un libro non di storia orale ma fondamentale per la microstoria sociale italiana – anch’esso ripubblicato negli ultimi anni – come quello di Franco Ramella, Terra e telai. Sistemi di parentela e manifattura nel biellesse dell’Ottocento, contribuendo alla temperie culturale e scientifica in cui si muoveva anche la Passerini2. E subito dopo arrivavano alle stampe altri volumi importanti che segnavano quella stagione storiografica: nel 1985 uscivano il libro di Alessandro Portelli, Biografia di una città. Storia e racconto: Terni 1830-19833 e quello di Giovanni Contini, Memoria e storia. Le Officine Galileo nel racconto degli operai, dei tecnici, dei manager 1944-19594. Nel 1988 era la volta di Duccio Bigazzi con Il Portello. Operai, tecnici e imprenditori all’Alfa Romeo 1906-1926, frutto di una ricerca in archivio che aveva prodotto anche raccolte di fonti orali5.

Questa stagione aprì con decisione le porte della storiografia a nuovi ragionamenti sui caratteri peculiari delle fonti orali e sul loro uso, dalle forme di funzionamento della memoria alle strutture del racconto, dal linguaggio ai meccanismi psicologici, dalla soggettività agli orizzonti culturali, dai silenzi alle omissioni fino alla parzialità, mettendo in discussione il dogma dell’attendibilità come unica chiave di valutazione del valore dei racconti e delle testimonianze e ponendo in secondo piano l’approccio puramente fattuale6.

Torino operaia e fascismo arrivava anche sull’onda di un interesse verso l’antifascismo delle classi popolari, stimolato dal dibattito sul consenso o dissenso al Regime fascista innescato dai lavori di Renzo De Felice, che aveva prodotto, soprattutto sul piano locale, ricerche che iniziavano a spingersi al di fuori di una storia semplicemente politica e dell’antifascismo organizzato, trovando nella storia orale un metodo di raccolta di fonti altrimenti non disponibili ma imprescindibili allo studio del fenomeno7. Ma Torino operaia segnava un deciso salto di qualità. La coppia categoriale di consenso/dissenso rivelava la sua sterilità e inadeguatezza a dar conto di situazione reali più sfumate, dentro a cui trovava spazio la quotidianità e l’agency delle persone appartenenti alle classi lavoratrici nelle loro strategie di sopravvivenza.

Emerge nel libro un mondo di mediazioni tra sé e il potere fascista che oscilla tra l’accettazione e il conflitto in una miriade di rimodulazioni adattate alle possibilità concrete e ai fabbisogni, anche familiari. Consenso e dissenso da categorie binarie si tramutano, sulla scia dei comportamenti, in un intreccio, nel quadro di un regime che allarga a dismisura lo spazio di quello che è pubblico e sottoposto al controllo dell’autorità, facendo entrare i rapporti sociali di piccolo raggio nella sfera politica. Qui si valuta di volta in volta cosa accettare e cosa no, mantenendo una distinzione tra accettazione e adesione, dando vita a due dimensioni, quella pubblica dell’accettazione e quella privata della resistenza8. Ma in un regime che aspira a un controllo totalitario come quello fascista, anche sui corpi, certi comportamenti privati diventano immediatamente atti politici. È il caso di quella che l’autrice definisce come la «resistenza demografica» delle donne che praticano l’aborto clandestino, resistendo alla politica sulla natalità del fascismo9.

Il libro di Luisa Passerini non si lasciava, e non si lascia, incasellare facilmente. Lo possiamo affrontare come uno studio di storia orale del lavoro durante il fascismo ma è anche una storia dell’antifascismo delle classi subalterne, così come una storia delle culture popolari e operaie – e dell’interazione tra le due – durante il fascismo. Infine, ci troviamo davanti anche a un volume che si interroga sulla memoria e le sue influenze, sulle strutture del racconto orale, sull’autorappresentazione dei testimoni e su quello che tutte queste diverse sfaccettature ci possono dire. Distaccandosi nella pratica scientifica dagli approcci più esplicitamente militanti degli anni Settanta, Luisa Passerini contribuiva così a porre le basi per una più chiara e definita caratterizzazione dei temi di indagine che sono propri della storia orale in generale e della storia orale del lavoro nello specifico.

Di grande valore in questo senso, e per niente invecchiata negli anni, la sua riflessione su come i racconti restituiscano quelle che definisce come “identità senza sviluppo”, esito a suo avviso tipico della narrazione orale che la differenzia da quella scritta autobiografica, più propensa per sua natura a rappresentare l’evoluzione del soggetto. «In alcune di queste storie è impiegato uno schema di sviluppo, anzi di miglioramento, che non coinvolge l’intimità dell’io, ma solo la sua condizione sociale» in cui «gli autoritratti dichiarano un’identità senza sviluppo, dove il soggetto si presenta come “sempre stato” o inizia a narrare da quando “si è voluto” in un dato modo»10.

Per quanto attiene il racconto del lavoro – che non ha sempre una funzione di autorappresentazione, nemmeno quando copre la maggior parte dell’esistenza – questo comporta che lo sviluppo concerne solo la condizione economica e sociale ma non l’io interiore del lavoratore e si riflette anche su una forza di inerzia dell’idea di lavoro che prescinde dalle trasformazioni del lavoro in fabbrica e dell’organizzazione aziendale. Dove il lavoro «fonda l’identità del narratore, dà origine a intrecci ingarbugliati di immaginazione e realtà» che rischiano di confondere comportamenti e idee11 ma anche a rappresentazioni di sé come eccellenti lavoratori capaci di stare al mondo12, con identità che restano identiche nel corso del tempo e l’introiezione di valori che richiamano da vicino quelli del “produttivismo”13. All’opposto, i soggetti che non possono vantare il loro “saper fare”, dequalificati dal processo produttivo, ripiegano su un’identificazione con quest’ultimo e sul prodotto14. Per le donne intervistate l’identità fondata sul lavoro mostra l’influenza che sulla memoria hanno avuto le idee emancipazioniste diffusesi in età repubblicana e soprattutto negli anni Settanta. Da questa rapida rassegna si evince come l’identità collegata al lavoro per l’autrice non possa essere semplicemente collegata al tipo di mestiere o alle forme di organizzare del lavoro di fabbrica ma altri fattori vanno tenuti in conto, come l’autostima, il valore sociale, le condizioni concrete, il retroterra culturale. Sono nodi che la storia orale del lavoro deve ancora continuare a sciogliere, anche ricorrendo agli strumenti della storia culturale, delle mentalità e dell’antropologia, all’analisi linguistica. Strumenti che gli storici non orali ancora stentano ad utilizzare anche quando ricorrono alle interviste come fonti.

Risulta particolarmente suggestivo provare a rileggere oggi il volume – ed in particolare il secondo capitolo – alla luce degli studi successivi dell’antropologo James C. Scott, soprattutto il suo Il dominio e l’arte della resistenza, uscito nel 1990 ma tradotto in italiano solo nel 2006. Schematicamente, Scott propone di distinguere tra quello che definisce come un “verbale pubblico” e il “verbale segreto”. Si tratta di due ambiti politici, discorsivi, simbolici e di potere, separati ma strettamente correlati. Nel primo – dai confini larghissimi all’interno di un sistema come quello fascista – si svolge il discorso ufficiale dei dominanti, a cui i subalterni devono garantire un’adesione esteriore. Nel secondo, nello spazio “dietro le quinte”, i subalterni «è facile che creino e difendano uno spazio sociale dove sia possibile esprimere il proprio dissenso verso il verbale pubblico delle relazioni di potere»15. Aver presente questa “doppiezza” può metterci al riparo da scambiare una tattica, come la formale adesione al verbale pubblico, per la rappresentazione effettiva di quello che avviene. Interpretare il verbale segreto significa provare a penetrare i suoi “siti sociali”, che possono essere luoghi come l’osteria, le fiere, i carnevali, le case, i quartieri, ma anche relazioni di vicinato, di parentela così come codici linguistici, dialettali, barzellette, parodie, pettegolezzi, giochi, canti, risate. Non può sfuggire come questi “siti sociali” siano gli stessi identificati dalla storiografia come i “siti” in cui era presente l’antifascismo popolare, il dissenso, non necessariamente organizzato politicamente16. In questi siti per Scott si svolge l’infrapolitica dei gruppi subalterni, attraverso cui si insinua la critica al potere e una varietà di resistenze di basso profilo, e sono centrali per comprendere le forme di resistenza al dominio, che comprendono anche forme di mediazione con il potere. Scrive Scott: «il lusso di un’opposizione politica aperta relativamente priva di rischi è qualcosa di raro e recente. La gran maggioranza delle persone è stata, e continua a essere, composta non da cittadini ma da sudditi. Considerando come politica solo le attività apertamente dichiarate, dovremmo concludere che i gruppi subordinati sono sostanzialmente privi di vita politica, oppure che la loro politica è ristretta a quei momenti eccezionali di esplosione popolare»17.

A differenza di Scott la Passerini non attribuisce sempre un valore politico di resistenza a certe increspature nei discorsi dei subalterni rispetto al potere, come l’irriverenza e l’irrisione. E non ritiene molti comportamenti un travestimento, una maschera, ma snodi di identità e di azioni irrisolte. Come scrive: «non si può dedurre il consenso dalla mancanza di opposizione politica» ma «non si può inferire il dissenso da forme di opposizione culturale»18.

Tuttavia i punti di contatto tra loro sono rilevanti. Entrambi fanno riferimento agli scontri simbolici e a forme ambigue di compensazione simbolica nella dialettica tra dominanti e dominati, all’equilibrio continuamente ricontrattato tra antagonismo e accettazione, al ricorso a codici culturali arcaici, ai confini labili tra la sfera del politico e quella del quotidiano, alla tattica di smentire certe affermazioni, attribuirle a stati di ubriachezza, a fraintendimenti, tutte forme che permettono un gioco delle parti tra un dominio che pretende l’ossequio e un discorso critico che tende a emergere ma senza prendersi eccessivi rischi. E se riviste secondo le categorie di Scott, alcune valutazioni della Passerini sono anche passibili di essere riconsiderate, come quelle sul “riso”, elemento ambivalente che contiene per lei tanto il mantenimento della dignità personale che la consapevolezza del cedimento, l’uniformazione e la resistenza, o sul gioco, che mette in ridicolo il Regime, che non sono forme di dissenso antifascista ma semplici reazioni culturali che «tentano di creare uno spazio di libertà, ma replicando il “puerilismo ufficiale”»19. Lette come espressioni del “verbale segreto” tengono invece aperto proprio quel varco dentro al quale può vivere e farsi strada un’idea, come la chiama anche la Passerini, di «prefigurazione di libertà»20. La divaricazione centrale tra le due letture sembra risiedere proprio qui: per la Passerini le piccole trasgressioni sono manifestazioni da vedere nella loro portata culturale, come surrogato della politica ma senza trasporle sul piano politico, che verrebbe troppo ampliato, anche se costituiscono l’avvisaglia di un’altra concezione del mondo e di difesa attiva, rappresentando un disagio21; per Scott si tratta invece di infrapolitica, che è la politica, «la forma primaria, basilare, della politica. Rappresenta la particella elementare dell’azione politica più elaborata e istituzionalizzata, senza la quale questa non potrebbe esistere»22.

Rileggere oggi le chiavi di lettura proposte dalla Passerini alla luce di Scott non è dunque solo un esercizio analitico ma può innescare, soffermandosi sui punti di contatto e sulle divergenze tra i due, una riflessione sulle categorie di agency, di resistenza, sulla vita quotidiana, a cui la storiografia italiana e le correnti storiografiche dell’antifascismo e del movimento sindacale non hanno fino ad oggi prestato la necessaria attenzione, utilizzandole scarsamente come strumenti euristici. Eppure l’attualità della ricerca della Passerini, che rompeva definitivamente certi rigidi schematismi della storiografia politica, ripubblicata tale e quale con solo una postfazione dell’autrice per rispondere ad alcune critiche ormai datate, evidenzia di per sé l’urgenza di intraprendere questa strada.

 

Stefano Bartolini

Fondazione Valore Lavoro

 


Sono passati quarant’anni dalla prima pubblicazione del libro di Luisa Passerini Torino operaia e fascismo. Una storia orale, uno studio che per molti aspetti rimane ancora ineguagliato. Quando la ricerca uscì alla metà degli anni Ottanta, la sua pubblicazione si inseriva in un panorama fiorente, quello delle pratiche di storia orale maturate nel panorama torinese negli anni Settanta e Ottanta, attorno – ma non esclusivamente – alla rivista “Fonti Orali. Studi e ricerche. Bollettino nazionale d’informazione”. La rivista, pubblicata negli anni Ottanta dall’Istituto piemontese di scienze economiche e sociali A. Gramsci e di cui Passerini fu anche direttrice, si contraddistinse per essere un laboratorio di ricerche individuali e collettive e uno spazio di riflessione metodologica sulle fonti orali. Una stagione e un contesto particolarmente pregnanti, quello torinese dell’epoca, che contribuirono, in relazione con gli sviluppi della storia orale a livello nazionale e internazionale, al rinnovamento più generale della storia sociale italiana, che stava vivendo in quel momento una fase particolarmente feconda23.

Il nucleo fondante della ricerca di Passerini era la ricostruzione, attraverso le memorie di una settantina di operai e operaie torinesi – non esplicitamente militanti politici - di diverse generazioni, della vita quotidiana sotto il regime fascista, e del complesso e a tratti ambivalente rapporto tra essi e la dittatura. La ricerca affrontava tre grandi temi: l’analisi dell’identità culturale operaia individuale e collettiva; il rapporto tra cultura operaia e cultura popolare più in generale; la tensione tra memoria e realtà fattuale nella ricostruzione delle vite private nel contesto di un regime totalitario.

L’analisi interdisciplinare, in cui fonti orali e fonti documentarie venivano intersecate e rilette alla luce di suggestioni mediate dall’antropologia, la psicologia, la sociologia, l’analisi letteraria e il folklore, costituisce ancora oggi un documento imprescindibile nella discussione di problematiche quali il consenso e il rapporto fascismo/antifascismo. Le memorie raccolte, interpretate all’interno del quadro metodologico della storia delle mentalità, facevano emergere un panorama “di resistenza culturale al regime, da parte delle classi lavoratrici” che oscillava “tra la compensazione simbolica di compromessi pragmatici e prefigurazione di libertà”24 e in cui i confini tra politica e quotidianità mostravano tutta la loro permeabilità.

I capitoli, in cui l’analisi dell’autorappresentazione cede il passo all’analisi delle azioni e dei comportamenti, e la storia culturale scivola in quella sociale, delineano un corpus di suggestioni ancora attuali e innovative che hanno trovato conferma negli studi più recenti della storia sociale del regime. Il caso torinese analizzato da Passerini rappresenta infatti per molti versi un simbolo della modernizzazione contraddittoria della società italiana compiuta dal fascismo nel periodo tra le due guerre. Un periodo in cui, come ha argomentato Patrizia Dogliani, il regime compì indiscussi passi avanti “soprattutto nella nazionalizzazione degli italiani, e quindi nell’incontro tra politica e vita sociale”, ma durante il quale al tempo stesso “isolò e fece arretrare il paese rispetto ad alcune grandi linee di sviluppo […] sia in campo culturale che sociale; in particolare limitò l’emancipazione di donne e giovani, il riscatto dalla povertà di ceti rurali e popolari, il maturare di liberi comportamenti privati e pubblici, e svilì il rapporto tra cittadino e Stato”25.

Emblematico della valenza di forme di reazione quotidiana all’interno di una dittatura che fece dell’invasione del privato uno dei suoi principali obiettivi, rimane ad esempio il capitolo sulla cosiddetta resistenza demografica, in particolare femminile. L’analisi, elevando la soggettività a categoria storica, metteva in luce gli intrecci tra modernità e conservatorismo inerenti al corpo delle donne e le contraddizioni, anche di classe, che trapelano dalle memorie, in un processo in cui ribellione e subordinazione ai canoni dell’epoca risultano spesso inestricabili. Allo stesso tempo però, le rivendicazioni delle donne, sebbene mediate nella memoria anche in virtù dei processi di emancipazione dei decenni successivi, mostravano come tali azioni tendessero “oggettivamente, al di là delle intenzioni dei singoli, a ridefinire la sfera politica, a contestarne la separatezza e a metterne in luce le contraddizioni”26. La rilettura dei paragrafi sulle politiche demografiche e sulle pratiche abortive durante il regime fascista mette inoltre in luce anche l’attenzione precoce dell’autrice verso un fenomeno fondamentale del periodo fascista, tardivamente analizzato nella sua complessità, ossia le trasformazioni delle istituzioni sanitarie e sociali attuate dal fascismo nel processo di nation building, di cui le donne rappresentavano al tempo stesso obiettivo e strumento riproduttivo27.

All’interno del libro, data la specifica contestualizzazione della ricerca, gli aspetti relativi al lavoro e alla professionalità (in particolare nei testimoni di sesso maschile) nella costruzione di un’identità individuale e di classe e di un’autorappresentazione nel segno dell’antifascismo costituivano una parte rilevante della ricerca. Nello studio, le memorie delineano uno “scontro culturale tra diverse visioni del mondo”28 in cui le differenze fra operai e fascisti assurgono a una dimensione che trascende il politico per affermarsi in senso morale, quasi ontologico. La tesi affermata nel libro di Passerini, di un’identità della classe operaia sopravvissuta e occultata attraverso il ricorso a forme di reazione quali le scritte sui muri, le barzellette, il canto, in una parola grazie alle connessioni tra cultura operaia e cultura popolare, si contrappose negli stessi anni a studi che arrivarono a conclusioni diametralmente opposte29. Negli anni Ottanta la contrapposizione della categoria consenso/dissenso in seno alla classe operaia (che a una rilettura contemporanea del libro di Passerini appare peraltro molto più sfumata e problematizzata di quanto il dibattito dell’epoca percepisse), com’è noto, fece da volano all’apparizione di una serie di ricerche fondamentali sulle organizzazioni fasciste di massa, quale quella seminale di Victoria De Grazia, e su quelle sindacali30. È peraltro altrettanto noto come questo filone di ricerche andò praticamente esaurendosi all’inizio degli anni Novanta31. Un calo di interesse a cui corrispose un più generale disinteresse verso la storiografia sociale del fascismo.

La riflessione storiografica del rapporto fra il fascismo e gli italiani più in generale ha conosciuto dalla metà degli anni Duemila un’importante fioritura di studi originali, attraverso le ricerche di una nuova generazione di storici che hanno esplorato problematiche quali ad esempio omofobia, razzismo, colonialismo, nazionalizzazione delle masse attraverso le politiche sociali32. Siamo dunque ormai in grado di ricostruire e ripensare gli aspetti essenziali dell’esperienza storica del fascismo italiano, in un periodo, quale quello attuale, in cui la riflessione storiografica su tale periodo appare ancora, se non più, necessaria33. A partire da queste acquisizioni, sembra pur tuttavia ancora indispensabile interrogarsi sulla pervasività del fascismo nelle pratiche e nel vissuto degli italiani, e sul processo di identificazione di essi sotto il profilo sociale, culturale, antropologico. Sotto questo aspetto, una ripresa degli studi, in particolare a livello locale, centrati sullo scandaglio della cosiddetta everyday life in contesti tanto urbani quanto rurali, e di specifici gruppi sociali (sul modello di quanto realizzato da parte della storiografia tedesca, e di cui ancora pochi sono gli esempi34), è da anni invocato come un passo importante da intraprendere per una migliore comprensione del fascismo. L’analisi delle vite comuni, di coloro che rischiano spesso di rimanere anonimi nel processo di ricostruzione storica, dei loro comportamenti, della loro agency, permetterebbe infatti di approfondire aspetti inediti dei rapporti tra strutture di potere e società, da una prospettiva di interdipendenza multifattoriale.

Da questo punto di vista la lezione metodologica di Passerini risulta più attuale che mai. Ci si può dunque augurare che la ristampa di Torino operaia e fascismo, così ricco di spunti e suggestioni, ma anche di domande rimaste parzialmente inevase, possa costituire da stimolo, alla luce delle acquisizioni storiografiche contemporanee, a una nuova stagione di studi sul rapporto quotidiano tra società italiana e fascismo.

 

Silvia Inaudi

Università di Trieste


1L. Passerini (a cura di), Storia orale. Vita quotidiana e cultura materiale delle classi subalterne, Rosenberg & Sellier, Torino 1978.

2F. Ramella, Terra e telai. Sistemi di parentela e manifattura nel biellesse dell’Ottocento, Einaudi, Torino 1984. Nuova edizione Roma, Donzelli 2022.

3A. Portelli, Biografia di una città. Storia e racconto: Terni 1830-1983, Einaudi, Torino 1985.

4G. Contini, Memoria e storia. Le Officine Galileo nel racconto degli operai, dei tecnici, dei manager 1944-1959, Franco Angeli, Milano 1985.

5D. Bigazzi, Il Portello. Operai, tecnici e imprenditori all’Alfa Romeo 1906-1926, Franco Angeli, Milano 1988.

6B. Bonomo, Voci della memoria. L’uso delle fonti orali nella ricerca storica, Carocci, Milano 2013; Per una ricostruzione delle fasi della storia orale italiana in stretta connessione con la storia del lavoro S. Bartolini, La storia orale e il lavoro: un terreno fertile, in S. Bartolini (a cura di), LabOral. Storia orale, lavoro e Public History,Edit press, Firenze, 2022, pp. 13-52.

7Vedi ad esempio il libro del parroco e sociologo A. Nesti, Anonimi compagni. Le classi subalterne sotto il fascismo, Roma, Coines edizioni, 1976, che contiene raccolte di fonti orali in tre aree rurali della Toscana. Si tratta di un volume ancora a metà strada tra la discussione sopra alle categorie tradizionali della storiografia politica e l’avvio di un approccio sociale, fotografando così a suo modo i primi tentativi di cambio di paradigma.

8L. Passerini, Torino operaia e fascismo. Una storia orale, Roma, Laterza, 1984. I riferimenti alle citazioni sono dalla nuova edizione Roma, Officina libraria, 2024, pp. 150-161.

9Ivi pp. 162-197.

10Ivi pp 65-66.

11Ivi p. 45.

12Ivi p. 47

13Cfr: S. Bartolini, Un bagaglio che attraversa la storia: il produttivismo, in F. Loreto, G. Zazzara, Fondato sul lavoro. Scritti per Stefano Musso, Torino, Accademia University Press, 2022, pp 110-125.

14L. Passerini, Torino operaia…, cit. pp. 59-60.

15J. C. Scott, Il dominio e l’arte della resistenza, Milano, Elèuthera, 2006 [2021], p. 10.

16Cfr: tra i tanti il colorito episodio riportato in R. J. B. Bosworth, L’Italia di Mussolini. 1915-1945, Milano, Arnoldo Mondadori, 2007, pp. 336-340.

17J. C. Scott, Il dominio…, cit. p. 310.

18L. Passerini, Torino operaia…, cit. p. 13.

19Ivi p. 101.

20Ivi p 12.

21Ivi p. 135.

22J. C. Scott, Il dominio…, cit. p. 312.

23AISO, Verso una cronologia e una bibliografia della storia orale italiana. Le esperienze torinesi tra anni Settanta e Ottanta, disponibile al link https://www.aisoitalia.org/wp-content/uploads/2023/10/Bibliografia-Torino-Fonti-orali.pdf (ultima consultazione: 18 agosto 2024).

24L. Passerini, Torino operaia e fascismo. Una storia orale, Roma, Officina Libraria, 2024, p. 12.

25P. Dogliani, Il fascismo degli italiani. Una storia sociale, Utet, Torino, 2008, p. 3.

26Passerini, p. 197. Su questo tema, si vedano anche le osservazioni di Richard Candida Smith, Popular Memory and Oral Narratives: Luisa Passerini's Reading of Oral History Interviews, in “Oral History Review”, 16/2, 1988, pp. 95-107.

27Si veda a tale proposito, per esempio, lo studio di A. Gissi, Le segrete manovre delle donne. Levatrici in Italia dall’Unità al fascismo, Roma, Viella, 2022.

28Passerini, p. 12.

29Si veda ad esempio M. Gribaudi, Mondo operaio e mito operaio, Einaudi, Torino, 1987.

30V. De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari, 1981.

31S. Musso, Storia del lavoro in Italia dall’unità ad oggi, Venezia, Marsilio, 2002.

32Uno spoglio significativo, anche se ormai da aggiornare, è costituito dalla bibliografia pubblicata alla fine del volume di Dogliani, Il fascismo degli Italiani, cit.

33G. Albanese (a cura di), Il fascismo italiano. Storia e interpretazioni, Roma, Carocci, 2021, p. 13.

34Un esempio è costituito da K. Ferris, Everyday Life in Fascist Venice, 1929-40, PalgraveMacmillan, New York, 2012.