Discussioni #7
Stefania Montemezzo e Gabriele Marcon discutono:
Steven A. Epstein,
Wage Labor and Guilds in Medieval Europe,
Chapel Hill (NC), University of North Carolina Press, 1991
Il funzionamento del mercato del lavoro in epoca preindustriale è stato oggetto di molti studi che hanno avuto l’obiettivo di contestualizzarne l’andamento in seno alle diverse società, ricercandone i meccanismi e le istituzioni che lo influenzavano. La volontà di comprendere le strutture che influiscono sul mercato e le istituzioni che ne regolavano l’accesso, ha portato gli storici, soprattutto dell’economia, a concentrarsi su una delle istituzioni più rilevanti per la gestione della produzione e del lavoro e che determinavano le condizioni dei lavoratori nel mondo preindustriale: le corporazioni. Una delle letture più conosciute rispetto all’operato delle corporazioni è quella data dalla scuola neo-istituzionalista, che ha arricchito il dibattito collocandolo su scala globale e guardando allo sviluppo delle istituzioni europee in termini di divergenza economica globale. Pur non entrando nel cuore del dibattito neo istituzionalista, che ha portato nel corso degli anni a discussioni circa il ruolo delle corporazioni per la crescita economica e lo sviluppo tecnologico, si colloca in questo campo il lavoro di Steven Epstein, che nel corso degli anni Novanta e Duemila ha concentrato sempre più la propria ricerca sulla libertà nel lavoro, approfondendo soprattutto i temi della schiavitù. Le sue ricerche hanno avuto un forte rilievo, soprattutto per quanto riguarda lo studio della realtà genovese.
Nel libro Wage Labor and Guilds in Medieval Europe, Epstein mira a indagare la nascita delle corporazioni medievali e del mercato del lavoro in Europa dall’antichità al Medioevo. Partendo dall’analisi delle forme di lavoro presenti nell’antica Roma e dai rapporti con le entità pubbliche, l’autore parla dell’esistenza e delle caratteristiche del mercato del lavoro nell’antichità. Analizzando le società di artigiani nell’antica Roma, i collegia, e mantenendo una linea interpretativa che si riscontra anche per i secoli medievali, Epstein si concentra su temi, quali il rapporto con le istituzioni pubbliche, il riconoscimento politico delle corporazioni e dei gruppi di mestiere, nonché la loro giurisdizione. Parificati inizialmente a club privati, i collegia di mestiere sembrano essersi formati a Roma per iniziativa privata e solo successivamente, in epoca imperiale, considerati come utili al potere politico per il controllo sociale. Tale disinteresse da parte delle autorità pubbliche appare sorprendente, a maggior ragione dato che alcuni di questi gruppi avevano dimostrato tendenze violente e insurrezionali che avevano portato alla loro soppressione temporanea o a un limitato riconoscimento da parte delle autorità. Parte delle associazioni di mestiere romane occupavano un’area grigia che si poneva ai limiti della legalità, tanto da spingere questi gruppi a petizioni per il legale riconoscimento della loro esistenza da parte delle autorità pubbliche. La struttura interna e l’operato di questi gruppi appaiono ancora non del tutto chiari, anche se per alcuni di essi traspare un’attività di lobbying per l’ottenimento di immunità e concessioni.
Ricorrendo alle poche fonti dell’epoca, Epstein sottolinea come l’intervento regolativo, tuttavia, fu imposto ai membri delle associazioni rendendo ereditaria l’appartenenza al collegium e con essa gli obblighi che questa comportava. Il ruolo sociale dei collegi fu infatti reso obbligatorio nel corso del tardo impero, obbligando i membri più importanti e benestanti delle associazioni al servizio pubblico. L’immobilizzazione sociale imposta ai membri portò a costanti fughe degli eredi, che di fatto caratterizzarono la vita delle associazioni lungo tutto il quinto secolo. Lo stretto rapporto che si era venuto a creare tra potere politico e associazioni di mestiere appare, secondo la versione fornita da Epstein, dirimente nella scomparsa dei collegi romani in Europa occidentale. Proprio la crisi del V secolo, infatti, spazzò via le associazioni romane occidentali, che riuscirono tuttavia a tramandare molte delle proprie caratteristiche alle corporazioni bizantine (pp. 25-26). Con l’arrivo di popolazioni germaniche nella Penisola e nei territori dell’ex Impero vennero a configurarsi nuove associazioni, che portarono le corporazioni a sviluppare caratteristiche autonome rispetto a quelle romane. Caratteristiche che nemmeno il ritorno dei corpus legislativi romani e orientali poterono cambiare. Secondo Epstein, la caduta dell’impero romano e la venuta dei regni latino-germanici aveva creato una cesura nel mondo del lavoro cittadino europeo, che rendeva di fatto l’esperienza romana quasi completamente distaccata da quella successiva. Ma un tale distacco è davvero possibile? Le invasioni germaniche dell’impero di Occidente avevano portato a una frammentazione politica e a uno spopolamento generalizzato degli aggregati urbani, con una forte diminuzione della domanda di beni e servizi e la conseguente diminuzione dell’utilità economica e sociale dei collegia. In questo vuoto non solo politico, ma anche culturale, secondo lo storico americano, la tradizione romana andò via via perdendosi, con un cambio anche nella denominazione dei gruppi organizzati. Grazie a un’analisi linguistica piuttosto accurata delle poche fonti coeve, Epstein mostra come non solo i nomi dei nuovi gruppi (fossero questi religiosi o di mestiere) che si venivano formando fossero diversi dai precedenti - corpus, ars o gilda - ma come la loro origine fosse spesso da ricollegarsi a tradizioni non romane, ma tribali. Questi gruppi, e in particolare le gilde, avevano anche caratteristiche di controllo religioso e sociale che le contraddistingueva fortemente dai collegi romani e le avvicinavano invece alle corporazioni medievali, dato che proprio nel loro operato Epstein riconosce le prime azioni di difesa dei propri membri e di assistenza ai propri soci. Di grande interesse è anche la diversa distribuzione delle associazioni artigiane attraverso il territorio europeo, figlia delle influenze culturali e politiche. Le associazioni di mestiere che sono menzionate soprattutto nei territori di influenza bizantina in Italia, come il Nordest e il Meridione, vedono organizzazioni, come le scuole, che poco dovevano al collegio romano e decisamente di più alle corporazioni orientali (pp. 43-44).
L’ampia analisi lascia tuttavia un elemento, a mio parere dirimente, irrisolto nel libro. Nonostante il largo confronto tra le associazioni romane e altomedievali la questione della giurisdizione (soprattutto per l’età antica e tardo antica) e la capacità di imporre regole e di farle rispettare rimane fortemente ai margini dell’analisi. La scarsa possibilità di rappresentare l’intero settore produttivo, in un contesto politico frammentato, fu verosimilmente un elemento fondamentale per la scomparsa dei collegi romani e delle istituzioni di rappresentanza dei settori produttivi, che, come spiega anche l’autore, nel medioevo dovettero essere ripensati e ricreati. Ciò avvenne con la ripresa della vita urbana e l’affermarsi di forme di autonomia urbana, più forti in Italia e nei Paesi Bassi, con una ripresa delle attività produttive di artigiani e mercanti, questa volta sempre più interessati al riconoscimento delle proprie prerogative da parte delle autorità e della popolazione locale. La relazione con le nuove entità urbane era ovviamente da definire. I membri delle corporazioni, che in un primo momento mirarono soprattutto al controllo della concorrenza e dei mercati, arrivarono in breve a desiderare anche una stabilizzazione dei rapporti con il potere, soprattutto quello cittadino. Alle città, infatti, interessava poter regolare le attività delle corporazioni onde evitare la creazione di giurisdizioni interne che potessero erodere il potere della politica urbana. (pp. 55-57) In un contesto di crescita economica e inurbamento, tuttavia, le concessioni per quanto riguarda la giurisdizione vennero ben presto fatte, soprattutto in tema di giustizia, controllo dei membri e monopolio del settore. Proprio queste due saranno caratteristiche fondamentali delle corporazioni nei secoli successivi, con una sempre maggiore forza delle corporazioni per quanto riguarda la regolazione del mercato del lavoro, che divenne sempre più esclusivo.
Una seconda linea tematica di forte interesse e che si riscontra lungo tutto il volume è l’andamento del mercato del lavoro e il ruolo degli artigiani nella sua formazione. Pur sottolineando la problematicità della libertà del lavoro in epoca antica, soprattutto per le professioni più pesanti (come quelle nel settore estrattivo), Epstein non affronta apertamente la linea interpretativa, proposta da studiosi come Karl Polanyi e Max Weber, che negava l’esistenza di un vero mercato del lavoro nelle società preindustriali (e antiche in particolar modo) a causa dell’alta presenza di lavoro non libero. Capovolgendo la prospettiva, affronta invece la problematica da un punto di vista più istituzionale, sottolineando l’importanza per i collegia di possedere schiavi e poter ricevere legati testamentari dall’età di Marco Aurelio. Queste concessioni si contrappongono al non chiaro ruolo delle associazioni professionali romane, che apparentemente non avevano funzioni di controllo della qualità o della competizione tra i membri. L’innovazione tecnica, come altre caratteristiche che saranno invece regolate nel corso del medioevo, venivano da accordi privati tra soci, che non erano legalmente riconosciuti né dallo stato né dalle associazioni stesse. L’apprendistato, uno degli elementi caratterizzanti delle corporazioni medievali, non appariva se non in alcune aree (come l’Egitto); tale assenza è collegata dall’autore alla presenza degli schiavi e dal fatto che il grosso dei lavori pesanti fosse svolto proprio da loro. È verosimile che fossero gli schiavi più esperti a formare quelli più giovani, ma data la condizione non era di fatto necessario alcun contratto di apprendistato e quindi nessun intervento regolativo da parte delle associazioni o dello stato (pp. 19-20).
Importante appare nel lavoro di Epstein l’utilizzo delle fonti notarili per la comprensione dell’assunzione di lavoratori nel contesto artigianale. In tal senso, l’Europa meridionale vede una presenza molto maggiore di questo tipo di documenti che, a meno di distruzioni causate da incendi o guerre nel corso della storia, si sono conservati per quasi tutti i maggiori centri urbani. Dai documenti notarili altomedievali esce in maniera marcata il tipo di distinzione dei lavoratori che veniva fatta soprattutto in ambito artigianale. Epstein si concentra molto sulla descrizione e l’utilizzo dei contratti notarili, individuando due caratteristiche determinanti: durata del contratto ed età del lavoratore. Praticamente in ogni contesto i lavoratori venivano divisi in apprendisti, lavoratori esperti e lavoratori giornalieri (journeymen). L’apprendistato era uno dei contratti più lunghi, spesso anni, che variava in base all’età e alla complessità del lavoro da svolgere, e che prevedeva l’elemento della formazione, con l’insegnamento della professione da parte del maestro. I contratti di apprendistato erano normalmente stipulati tra maestri e genitori, con l’offerta, da un lato, di servizio presso la bottega e per l’arte, e dall’altro di insegnamento di una professione per un certo numero di anni. Diversa era la posizione del lavoratore più esperto, già in grado di praticare il mestiere, che veniva assunto per diversi mesi, remunerato a giornata e con salari più alti. I journeymen, invece, erano la più precaria delle situazioni: non specializzati, caratterizzati da forte mobilità, venivano assunti per brevi periodi o per un compito preciso. Interessante da parte di Epstein la comparazione tra le tipologie contrattuali dell’epoca. Alcune delle caratteristiche dei contratti di apprendistato sono messe dall’autore in relazione a quelli di vendita o affitto degli animali. L’affinità riguarda soprattutto lo sfruttamento del lavoro e la capacità/volontà di entrare in una relazione lavorativa. Nonostante l’evidente differenza tra schiavitù (di fatto comparabile alla vendita di animali, dato che si andava a sfruttare per reddito le risorse del corpo degli schiavi) e apprendistato (che invece prevedeva un diverso atteggiamento nei confronti di chi cedeva la propria opera, oltre che diritti garantiti per contratto), l’autore nota come schiavi, giovani apprendisti e animali fossero oggetti, e non soggetti, dei contratti di lavoro. Tale considerazione è da coniugare allo status giuridico di questi individui che, data la loro condizione, non erano in grado di stipulare un contratto in modo autonomo, dovendo invece sottostare alla volontà di chi deteneva i diritti sulle loro prestazioni, come padroni o tutori legali.
Nonostante l’accurata analisi delle tipologie di lavoratori, una delle note forse più dolenti del volume è la mancanza di approfondimento di una specifica categoria: le donne. Per quanto riguarda il lavoro femminile nelle corporazioni, sin dagli anni ’80, ci sono stati studi che hanno mostrato come le donne subissero discriminazioni da parte delle corporazioni, con ammissioni che seguivano solo periodi di scarsità di forza lavoro (come le pestilenze) e controlli molto stringenti, pur con differenze regionali. Epstein accenna alla partecipazione delle donne alla vita delle associazioni di mestiere già dall’epoca romana, menzionando, al loro fianco, il riconoscimento come membri dei collegia anche degli schiavi. Nonostante l’interesse dell’argomento, che non tocca solo un tema di genere ma anche del riconoscimento di diritti agli schiavi, la questione non viene poi chiarita e approfondita. Anche per quanto riguarda l’analisi dei contratti di apprendistato per le donne (p. 77) la questione viene liquidata in poche righe, spiegando come una vera regolamentazione dell’accesso femminile alle corporazioni non esistesse e come queste fossero relegate a essere mogli, vedove o amanti degli artigiani facenti parti dell’arte, o al massimo lavoratrici giornaliere sottopagate (p. 77; 87; 115; 118; 123; una diversa situazione invece viene rappresentata nei tessitori appartenenti agli Umiliati, dove le vedove potevano agire esattamente come i mariti: p. 95). L’esclusività nella partecipazione alla vita delle corporazioni è evidente proprio nei confronti della parte femminile della forza lavoro, delle minoranze e dei lavoratori non specializzati: analizzando in maniera superficiale le prime due, come fatto nel volume, vengono meno molte delle caratteristiche che negli anni successivi sarebbero state al centro delle analisi sulla funzione sociale delle corporazioni e che porteranno, in molti casi, a giudicare in maniera negativa proprio l’operato delle associazioni di mestiere.
Attraverso i capitoli, ma con un’attenzione particolare alle forme medievali, Epstein affronta un terzo importante argomento: la formazione del salario. La formazione del salario e il tipo di retribuzione non erano lineari o standardizzati, ma dipendevano da diversi fattori, come la posizione sociale del lavoratore, la tipologia professionale e le capacità acquisite. Interessante in questo senso è l’analisi dei salari di due tipi di lavoratori nel settore tessile, cardatori di lana e tintori, che dimostra come la cifra fosse anche connessa alla difficoltà del lavoro da svolgere e al potenziale rischio di rovinare la merce. Se per i cardatori la retribuzione era a cottimo, ai tintori, che necessitavano di maggiore attenzione nel maneggiare il prodotto, era invece offerto un salario fisso. Quest’ultimo era in genere più alto di quello a cottimo, che Epstein ritiene essere il meno conveniente dei due. Nella formazione del salario, Epstein considera anche fattori quali i giorni non lavorativi e il rapporto con le istituzioni religiose, fossero queste la Chiesa o le confraternite. Pur obbligando di fatto alla partecipazione alle funzioni, queste ultime riconoscevano la necessità per i lavoratori di poter guadagnare anche nei periodi festivi, lasciando ai maestri la possibilità di offrire lavoro proprio in questi giorni e, di conseguenza, una certa indipendenza nel controllo dell’accesso alle proprie botteghe. Accesso alle botteghe che era invece regolato rispetto al tipo di lavoratori che vi potevano accedere, dato che molte corporazioni impedivano di possedere schiavi (soprattutto nel campo della metallurgia) per impedire facili vantaggi di un produttore sull’altro, obbligando i maestri all’assunzione di lavoratori liberi.
Interessante già nell’introduzione il riferimento al valore della moneta (soggetto a forti variazioni oltre che all’offerta di materiali di conio) e all’influenza che poteva avere sulle politiche di reclutamento dei lavoratori salariati. (p. 4) Un esempio è quello del V secolo, con la crisi generalizzata dell’Impero Romano di Occidente e la conseguente scarsità di denaro circolante che ridusse la possibilità di impiegare operai salariati. Tale scarsità continuò nel corso dell’alto medioevo, nonostante le riforme e le prime coniazioni di moneta argentea durante il periodo carolingio. Ciò ebbe una forte influenza sul mondo del lavoro, con la quasi totale scomparsa del lavoro salariato, sostituito da diverse forme di lavoro forzato (schiavitù, corvée) e dal pagamento in baratto sui mercati locali. Proprio nei periodi di crisi, i contratti di lavoro mettono in luce la necessità di coloro che facevano parte dello stesso settore produttivo di unire le forze e aderire a pratiche comuni per poter governare e superare le evoluzioni del mercato. La nascita delle corporazioni viene quindi vista da Epstein in questa luce. E a questo si aggiunge nel corso del medioevo un elemento di sostegno sociale ed economico, con l’aiuto dato alle famiglie degli artigiani deceduti. Questo supporto si legava in alcuni casi alle confraternite e alla sottomissione ad uno stesso patrono, unendo l’aspetto lavorativo a quello religioso. Aspetto religioso che portò all’esclusione delle comunità ebraiche dalle corporazioni praticamente ovunque, rendendo queste persone straniere a tutti gli effetti.
L’analisi fatta da Epstein in questo volume è particolarmente interessante poiché ha anticipato molti degli studi, e dei dibattiti, sulla formazione delle corporazioni, dell’apprendistato e del progresso tecnologico che si sono sviluppati nei due decenni successivi. Lo sguardo di lungo periodo, lo studio della realtà romane e delle sue persistenze medievali, l’utilizzo degli atti notarili per un periodo così scarso di fonti come l’Alto medioevo, rende prezioso il contributo del libro. Libro che lascia però questioni aperte, in parte poi oggetto di analisi successive di altri studiosi, portate avanti da studiosi del calibro di Larry Epstein, Sheilagh Ogilvie, Jan Luiten Van Zanden o Maarten Prak, solo per citarne alcuni.
La chiarezza fatta da Epstein sulle origini dell’istituzione corporativa è contrapposta dalla mancanza di approfondimenti su alcune questioni (come quella di genere e delle minoranze religiose). Queste mancanze si fanno sentire, soprattutto per quanto riguarda l’analisi del mercato del lavoro, della sua esclusività e delle condizioni lavorative delle apprendiste. Tale assenza viene molto probabilmente dalla fonte maggiormente usata dall’autore, i contratti notarili. Nonostante la loro utilità, infatti, i documenti notarili rendono l’immagine degli accordi tra maestro e lavoratore ma non dell’effettiva condizione dei lavoratori del mondo artigianale o dei problemi che sarebbero insorti successivamente. Va inoltre considerato che l’analisi dei contratti di lavoro è, per stessa ammissione dell’autore, molto sbilanciata su Genova. Genova che, nel contesto italiano, insieme a Venezia rappresenta più un’eccezione che la regola. L’appiattimento dell’interpretazione sulla città marinara è accentuato anche dalla comparazione diretta che l’autore fa con tutti i casi studio italiani e francesi. Manca anche nel volume una vera analisi delle conseguenze che la nascita delle associazioni di mestiere ha provocato a livello sociale ed economico, che avrebbe forse anche meglio spiegato la scomparsa dei collegi romani e la mancata continuità delle loro tradizioni nelle corporazioni medievali.
Nonostante le problematiche, il lavoro dello storico americano si situa in un dibattito che ha coinvolto negli anni successivi molti storici che, usando contesti e casi provenienti da tutta Europa, hanno chiarito molte delle dinamiche accennate da Epstein nel suo libro, mettendo in luce una diversità di approcci e analisi che ha arricchito enormemente il campo storiografico.
Stefania Montemezzo, Università di Padova
Il libro Wage Labor and Guilds in Medieval Europe analizza la relazione tra corporazioni di mestiere e lavoro salariato nell’Europa preindustriale. Ripercorrendo una delle questioni principali degli studi di storia economica dell’età medievale e moderna, il libro evidenzia come le corporazioni furono organismi fondamentali nei processi di trasformazione del mercato del lavoro e nella creazione delle condizioni sociali, politiche, ed economiche a sostegno della crescita europea prima dell’industrializzazione. Il libro contribuisce al dibattito storiografico sul ruolo delle istituzioni nello sviluppo economico delle nazioni portato avanti principalmente dai membri della New Institutional Economics agli inizi degli anni Novanta. L’autore Steven Epstein, storico economico e sociale del periodo medievale e professore di storia medievale all’Università del Kansas, afferma che le corporazioni garantirono solidità e longevità agli elementi fondamentali del sistema economico capitalista, quali il lavoro salariato, l’apprendistato, la trasmissione delle conoscenze tecniche, e l’accumulazione del capitale sociale ed economico.
Lo studio del ruolo delle corporazioni nell’economia preindustriale ha una lunga storia. In generale, la denominazione che maggiormente si presta a descriverne l’operato è quella di un’associazione i cui membri condividono un interesse comune, sia esso di tipo sociale, religioso, caritatevole, o economico. Attorno all’anno Mille, e particolarmente nel dodicesimo e tredicesimo secolo, le corporazioni di mestiere occuparono influenti posizioni nella vita sociale, economica e politica delle città europee. In questo periodo, le arti diventarono sia il fulcro dell’economia manifatturiera, grazie all’ottenimento di privilegi che garantirono la produzione e vendita di beni di lusso e di primo consumo nei mercati urbani ed europei in posizioni monopolistiche, sia il principale centro di aggregazione sociale e spirituale della popolazione attiva nei centri urbani medievali. Partendo da questa definizione, gli studi di economia classica di Adam Smith e David Ricardo, e quelli neoliberisti del secondo dopoguerra, giudicarono in modo fortemente negativo l’operato delle corporazioni, essendo quest’ultime nate con la funzione di creare e mantenere monopoli di produzioni e standard di qualità obsoleti per la crescita industriale. Quest’idea ha particolarmente influenzato lo studio sulle corporazioni fino agli anni Novanta e Duemila, quando la scuola neo-istituzionalista e il dibattito sulla Great Divergence hanno portato ad una radicale trasformazione dell’immagine delle corporazioni nella storiografia contemporanea. In questo periodo, gli storici economici si concentrarono sull’analisi delle dinamiche storiche che portarono alla nascita dei nuovi mercati globali all’indomani della Guerra Fredda. Quest’interesse si concentrò particolarmente sulla creazione di nuovi circuiti di scambio che coinvolsero le economie emergenti di Cina, Brasile, e India, le quali, dopo tre secoli di dominio coloniale fondato sulle imposizioni di sistemi monocolturali e sullo sfruttamento di manodopera a basso costo da parte delle potenze occidentali, attirarono l’attenzione della storia economica sulle caratteristiche intrinseche dei sistemi economici euroasiatici – in particolare la Cina – e sul confronto con la controparte europea. Famosi in questo senso sono i membri della scuola neo-istituzionalista, i quali sostenevano che la presenza di istituzioni economiche formali e informali e garantivano i diritti di proprietà, e quelli della California School e i loro studi sulla Great Divergence agli inizi degli anni Duemila. Secondo quest’ultimi, le differenze economiche tra il ‘West and the ‘Rest’ emersero solo con l’avvento dell’industrializzazione, e le ragioni della crescita accelerata dell’Europa – e in particolare dell’Inghilterra – sono da ricercare nella disponibilità di risorse energetiche, nei traffici commerciali e nella capacità di disporre di nuove tecnologie per una crescita sostenuta.
La questione del perché alcuni paesi si industrializzarono e come è più da riferirsi al contesto storiografico che circonda le ricerche di Epstein, piuttosto che al contenuto del suo libro. Infatti, sebbene non direttamente interessato nelle dinamiche globali di cui i colleghi californiani si stavano occupando, Epstein afferma implicitamente che lo sviluppo economico europeo in senso capitalista è da rintracciarsi nel binomio corporazioni-lavoro salariato che emerse nelle città europee tra undicesimo e dodicesimo secolo. Contrariamente a quanto sostenuto dagli studi sulla ‘Grande Divergenza’, Epstein si concentra nel dimostrare come l’economia europea prese le sembianze di un sistema capitalistico con l’avvento delle corporazioni e, aspetto ancora più importante, come queste dinamiche rimasero pressoché invariate fino ai giorni nostri. Epstein rivela chiaramente che il lavoro salariato e le corporazioni sono ‘two sides of the same coins’, e che gli stessi elementi che contraddistinsero il mercato del lavoro contemporaneo, nell’Europa medievale ‘avevano senso solo in presenza delle corporazioni’ (p. 68). La riscoperta delle corporazioni come istituzioni che facilitarono la crescita economica di lungo periodo segnò in generale una forte rottura con le passate interpretazioni storiografiche citate sopra, le quali descrivevano le corporazioni come associazioni corporativiste e monopoliste volte a mantenere i privilegi sociali ed economici dei maestri d’arte, ignorando le fluttuazioni del mercato e gravando sulla flessibilità e accessibilità del mercato del lavoro. In questo senso, il lavoro di Epstein aggiorna in questo senso una visione negativa delle corporazioni di mestiere, dimostrando che le istituzioni di Antico Regime contribuirono allo sviluppo manifatturiero ed economico delle città Europee in funzione dell’industrializzazione.
I capitoli centrali del libro mettono in luce queste caratteristiche. In particolare, Epstein si sofferma sul fatto che le corporazioni di mestiere crearono, sostennero, e rigenerarono il lavoro salariato e, di conseguenza, scardinarono i freni di matrice malthusiana che l’inadeguata produttività agricola impose al rigenerarsi della popolazione e agli scambi commerciali. Il libro passa in rassegna l’evoluzione delle corporazioni nel lungo periodo, la cui presenza affonda le sue radici nei collegi romani, e si riafferma solo dopo essersi perduta dopo il periodo altomedievale. È nel terzo capitolo del libro che Epstein sottolinea maggiormente l’importanza della corporazione nella gestione interna del lavoro salariato. Ciò che sostenne principalmente il sistema produttivo delle corporazioni era la capacità di autoregolamentare l’accesso al mercato del lavoro. Da Genova a Firenze, passando per Parigi e Londra, le strutture corporative garantivano una misura equilibrata tra monopolio e competizione nella gestione del lavoro, e affidavano il mantenimento del lavoro salariato alle necessità dei maestri di bottega nel reclutare apprendisti e journeymen. Tutto ciò avveniva all’interno di un ambiente controllato, quello delle strutture corporative, che bilanciavano il diritto dei maestri di ‘controllare gli aspetti interni del proprio commercio e professione’ (p. 98), con obblighi che garantivano l’ingaggio di apprendisti e lavoratori giornalieri in un regime di monopolio. Le regole statutarie obbligavano i maestri agli apprendisti e viceversa, come la durata dell’apprendistato, di norma dai 3 agli 8 anni, la quale variava a seconda delle norme consuetudinarie e dal tipo di arte nella quale i giovani apprendisti si specializzavano. Genova, un caso di studio che viene ripreso molte volte nel corso del libro, è considerata dall’autore come l’eccezione che conferma la regola poiché la durata dell’apprendistato nella città portuale non seguiva ‘hard-and-fast rules’ per il tempo del servizio dell’apprendista (pp. 104-106). La trasmissione delle tecniche produttive era l’aspetto più significativo di questo sistema che, secondo Epstein, avrebbe permesso a pupilli e garzoni di imparare il mestiere e uscire da una situazione di estrema povertà. Tuttavia, l’analisi di Epstein si limita ad alcuni casi di studio in Italia, Inghilterra, e Francia, senza per esempio considerare le corporazioni in Polonia, Germania, Lituania, Spagna e Portogallo. Uno studio di più ampio respiro infatti ha recentemente rivelato che solo il 40% degli statuti corporativi dei paesi europei comprendeva la figura dell’apprendistato, e che nella maggior parte dei casi – come in Inghilterra – l’apprendistato fosse un’istituzione non necessariamente legata alle dinamiche corporative. In aggiunta, Sheilagh Ogilvie, storica economica le cui ricerche hanno contestato il binomio corporazioni-crescita economica suggerito dagli storici neo-istituzionalisti, ha dimostrato come nel caso in cui l’apprendistato facesse parte dell’organizzazione corporativa, gli apprendisti pagavano ingenti tasse di accesso alla corporazione, pari anche a quasi un anno di salario. Epstein, inoltre, non si sofferma abbastanza sui modi in cui le corporazioni favorirono la trasmissione del sapere tra maestro e garzone, la quale invece diventerà l’elemento caratterizzante gli studi dello storico economico Stephen R. (Larry) Epstein agli inizi degli anni Duemila. Sebbene per l’autore ‘l’obbligo centrale tra maestro e apprendista era quello di insegnare e imparare’ (p. 106), gli storici di stampo neo-istituzionalista individuarono in questo sistema uno degli elementi fondamentali su cui basare una generale riconsiderazione del ruolo delle corporazioni dell’economia preindustriale alla luce della capacità di mantenersi per secoli tramite la trasmissione del segreto dell’arte tra maestri e garzoni. L’assenza di una discussione in questo senso è, ancora una volta, legata al limitato respiro geografico delle ricerche di Epstein, esclusivamente circoscritto alle corporazioni italiane, francesi, e inglesi. Per esempio, il ruolo dei journeymen e della circolazione delle conoscenze tecniche non può essere completamente apprezzato senza uno sguardo a ciò che accadeva nelle città della Germania meridionale e dell’Austria, dove le corporazioni cittadine (Zünfte) erano investite di poteri economici e politici molto più grandi delle controparti inglesi, francesi, e italiane. Epstein si riferisce ai journeymen per sottolineare il vantaggio che essi portavano ai maestri, i quali avevano a disposizione un ‘campione di lavoro extra prontamente disponibile, dalla quale attingere a seconda delle necessità’ (p. 108-114). Anche se quest’elemento sottolinea l’importanza del nesso tra disponibilità e flessibilità del lavoro, l’analisi manca completamente il punto centrale della discussione sui journeymen, ovvero la loro mobilità nei mercati del lavoro urbani, interregionali, e transnazionali. Il caso tedesco, completamente ignorato da Epstein, permette di capire come al termine dell’apprendistato, i lavoratori che si spostarono di città in città attraverso un sistema di protezionismo e assistenzialismo corporativo favorirono lo scambio delle conoscenze e lo sviluppo di nuove tecniche tra botteghe, città, e regioni europee.
L’analisi sulla disponibilità del lavoro salariato e sui modi di attingervi si completa con una riflessione sul salario. Epstein si concentra sul nesso tra strutture del lavoro e variazioni salariali. La stagionalità, per esempio, aveva un forte impatto sulla formazione del salario, mentre l’età e il sesso riflettevano le gerarchie corporative (pp. 115-120). Il salario dell’apprendista era composto dalle spese di sostentamento a carico del maestro, mentre la remunerazione dei journeymen seguiva regole legate al mercato come la professione e la durata dell’impiego, ed era soggetta alla competitività tra i maestri. Garzoni e journeymen venivano pagati alla giornata o alla settimana, e i salari venivano anche corrisposti a cottimo. Epstein sorvola sul fatto che le retribuzioni non venivano percepite esclusivamente sotto forma di pagamenti monetari, mentre sostiene che le remunerazioni attraverso il pagamento di vitto, alloggio, e vestiario rimasero esclusivamente legati al lavoro degli apprendisti. L’autore rinuncia a investigare questi aspetti ma anticipa comunque una delle tematiche centrali della storia del lavoro. Quest’ultima si è recentemente concentrata sullo studio delle remunerazioni non monetarie per analizzare le relazioni di lavoro tradizionalmente escluse dall’analisi dei sistemi economici capitalisti, come il lavoro delle donne e il nesso tra lavoro ‘libero’ e ‘non libero’. L’analisi di Epstein sui salari monetari è dettata dall’utilizzo di fonti istituzionali come i capitolari e gli statuti corporativi, i quali sebbeno siano estremamente utili per la ricostruzione dell’organizzazione strutturale del lavoro, offrono una visione parziale su ciò che accadeva all’interno delle botteghe dei maestri del dodicesimo e tredicesimo secolo. La scelta di Epstein, quindi, è sicuramente dettata dalla scarsità delle fonti per il periodo medievale, ma è viziata dall’assenza di tematiche centrali al mondo del lavoro che accompagna il lettore per tutta la durata del libro. Si ha la sensazione che il lavoro, inteso nel senso delle pratiche quotidiane svolte da uomini, donne e bambini dentro e fuori le botteghe artigianali, non diventi mai l’oggetto vero e proprio del libro, quanto piuttosto un elemento sussidiario che giustifica la presenza delle strutture corporative e la cui esistenza si sviluppa esclusivamente in funzione delle operazioni di mercanti e maestri.
Formatosi durante l’emergere degli studi culturali degli anni Ottanta, Epstein s’interessa fortemente alla vita sociale e culturale alla base dell’associazionismo corporativo (pp. 155-207). In questo senso, l’autore analizza con attenzione il panorama sociale e culturale dove lavoro e corporazioni s’intrecciavano. Epstein si interessa maggiormente di quali elementi religiosi, sociali, e politici hanno permesso la rinascita delle corporazioni tra il dodicesimo e il tredicesimo secolo, rivolgendosi principalmente al carattere filantropico delle corporazioni e alla capacità di attingere ai valori comunitari della cristianità per trasformarli in chiave economica. Questo passaggio non avvenne senza tensioni. Per esempio, ogni corporazione era de facto una confraternita religiosa i cui membri s’impegnavano ad osservarne le regole spirituali e di cura d’anima (pp. 155-170). I confratelli erano impegnati in opere caritatevoli a sostegno dei poveri e partecipavano alle cerimonie religiose imposte dagli statuti corporativi e dalla dottrina ecclesiastica locale. Tra queste, il divieto di lavorare la domenica e nei giorni festivi rappresentava un importante punto di attrito tra rigore spirituale e necessità produttive. Epstein spiega come ‘le 52 domeniche e la crescente lista di festività rappresentavano un’ingente porzione dell’anno’ (p. 160) e ogni lavoratore doveva farci i conti. In questo caso le corporazioni adottarono diverse strategie per giostrarsi tra l’osservanza del calendario ecclesiastico e gli obblighi produttivi di alcune arti. Per esempio, i panettieri parigini affermavano da statuto di non lavorare durante i giorni di festa, sapendo che molti di questi cadevano di domenica (p. 161). A Bologna invece, l’arte degli spadai s’impegnava a non lavorare durante le svariate celebrazioni imposte dalla Chiesa, ma permetteva ai suoi membri di praticare alcune attività, quali la forgia e la restituzione di spade già usate. La chiave interpretativa di Epstein è che nonostante gli attriti che l’incontro tra religione ed economia poteva causare, i compromessi erano – come d’altronde nel caso dell’usura – un importante elemento dello sviluppo economico medievale. Nonostante quest’analisi faccia riferimento alla doppia natura delle corporazioni come istituzioni religiose ed economiche, non si capisce se e come quest’ambiguità emergesse anche nella pratica. In questo caso, la formalità dei precetti statutari porta a pensare che nelle città medievali fortemente influenzate dal potere secolare della Chiesa si lavorasse meno, mentre la produttività aumentava nei luoghi dove il rigore religioso era meno pressante, suggerendo l’esistenza di percorsi diversi di sviluppo economico basati sul numero di giorni festivi del calendario ecclesiastico. L’idea che la relazione tra giorni festivi e giorni di lavoro abbia influito sulla crescita economica contribuì alla creazione di filoni storiografici di grande successo, come per esempio le teorie sulla Industrious Revolution avanzate da Jan de Vries agli inizi degli anni Novanta. Tuttavia, queste teorie sono state recentemente ridiscusse dalle ricerche condotte da Corinne Maitte sull’industria edile nelle città di Parigi, Firenze e Milano. Ciò che emerge è che il calcolo del tempo del lavoro giornaliero nel periodo preindustriale era molto meno rigido della dicotomia tra festività e lavoro suggerita in precedenza, e che l’analisi su specifici casi di studio offre una visione più complessa dell’esperienza dei lavoratori.
L’elemento che affascina particolarmente Epstein è la longevità delle corporazioni attraverso la storia. È solo tramite il superamento della crisi del quattordicesimo secolo che l’economia urbana riuscì a creare ‘l’ultima e più duratura parte nella storia del lavoro medievale’ (p. 208). Lo shock della peste e la stagnazione dell’economia si acuirono con la presenza di problemi strutturali intrinsechi all’organizzazione delle corporazioni. Con l’esempio delle arti minori della città di Firenze – soprattutto rigattieri e oliandoli – Epstein dimostra come le fluttuazioni del mercato misero a dura prova la capacità delle corporazioni di gestire il mercato del lavoro, il quale divenne sempre più ristretto a coloro che cercavano di diventare maestri nelle corporazioni ma non potevano vantare di avere legami familiari con i membri dell’associazione. In particolare, agli inizi del Trecento gli apprendisti che volevano diventare maestri pagavano tasse di accesso più alte, mentre i familiari dei maestri mantenevano accessi preferenziale. A Parigi, per ovviare alla dilagante disoccupazione, l’editto regio del 1322 permetteva ai maestri di lavorare anche di notte e di aumentare il numero di apprendisti e journeymen. Tuttavia, Epstein fa notare come queste misure risolsero solo in parte il problema dell’accesso al lavoro, creando in realtà un effetto a ‘collo di bottiglia’ per il ruolo di maestri. Questa tendenza si inasprì anche a causa dell’aumento del prezzo dell’oro e dell’argento, e dall’inflazione sui beni di primo consumo in generale, ma soprattutto dalla relativa stabilità dei salari, i quali secondo Epstein non cambiarono significativamente nell’intervallo 1260-1350 in Inghilterra e Francia (p. 214). In generale, l’autore è cauto nel generalizzare queste trasformazioni in tutta Europa, e riferisce – senza approfondire – che il ruolo delle migrazioni alleviò la pressione demografica sulle città e sui salari, scardinando solo in alcuni casi le crisi malthusiane verso la fine del tredicesimo secolo.
È però in questo frangente che Epstein si cimenta su uno degli elementi potenzialmente più interessanti della sua ricerca, ovvero la presenza del lavoro servile nelle economie urbane europee. Epstein mostra – senza spiegarne le cause – come le istituzioni economiche medievali scartarono in modo consapevole il lavoro servile a favore del ‘free wage labor’ (p. 215). L’idea che il lavoro non libero fosse un freno per la crescita economica deriva da una lunga tradizione di studi sul mercato del lavoro in epoca preindustriale. Tuttavia, le ricerche condotte dai membri della New History of Capitalism negli ultimi vent’anni hanno evidenziato come in realtà il lavoro non libero favorì lo sviluppo economico, incrementando l’accumulazione di capitale non solo dei proprietari di schiavi negli stati sudisti d’America – come si pensava precedentemente – ma contribuendo in generale allo sviluppo dell’economia americana prima della guerra civile. Queste nuove ricerche dimostrano che schiavitù e lavoro salariato non si escludono a vicenda ma rappresentano piuttosto percorsi alternativi nel processo di crescita del capitalismo industriale. Alla luce di queste teorie, viene spontaneo domandarsi se la crescita economica europea si sviluppò sui binari del lavoro salariato piuttosto che di altre forme di lavoro servile, e se forme ibride di lavoro servile e salariato in Europa si formarono durante le fasi di crescita economica nel periodo medievale e moderno. Epstein analizza in che modo la presenza di schiavi nelle economie urbane europee influenzò il mercato del lavoro salariato. L’autore ci informa sulle differenze sul costo del lavoro tra quello servile e salariato, sottolineando che il costo degli schiavi nel Mediterraneo aumentò verso la fine del dodicesimo secolo, mentre il costo di mantenimento degli apprendisti nelle botteghe poteva essere paragonabile ai costi di sussistenza degli schiavi posseduti dalle famiglie nobili genovesi. Sebbene ci fossero delle somiglianze tra i due sistemi di lavoro, Epstein rivela che possedere schiavi fosse un lusso che veniva mantenuto ‘nonostante qualsiasi calcolo razionale dei benefici economici di possedere schiavi’ (p. 219). Quindi, spiega che il basso numero di schiavi nelle botteghe era dovuto ad un semplice calcolo razionale sui costi del lavoro, secondo il quale alcuni apprendisti erano pagati meno degli schiavi e molto spesso erano mantenuti dalle proprie famiglie per quanto riguarda vitto, alloggio e vestiario.
Anche in questo caso, l’analisi di Epstein si rivela un’occasione mancata per investigare in modo più esplicito le dinamiche del lavoro che emersero nei momenti di trasformazione economica, piuttosto che evidenziare le valutazioni dei maestri sulla forza lavoro. L’assenza di una discussione incentrata sulla varietà delle tipologie del lavoro in epoca medievale, quali il lavoro non-remunerato delle donne, il ruolo degli stranieri e della mobilità del lavoro, e le forme di lavoro servile nelle botteghe degli artigiani, assieme alla visione monolitica e teleologica del lavoro salariato, sono tratti salienti che impediscono al libro di trasmettere una visione più complessa del mercato del lavoro medievale. Ciononostante, Epstein anticipa e contribuisce in modo dettagliato al dibattito che emerse alla fine degli anni Novanta e raggiunse il suo apice nei primi anni Duemila con le discussioni sulla Great Divergence, gli studi neo-istituzionali di Stephen R. (Larry) Epstein, e le ricerche di Sheilagh Ogilvie sul ruolo delle corporazioni nella crescita Europea preindustriale. In questo senso, il libro rappresenta un buon punto di partenza per gli studi sul lavoro salariato. In particolare, Epstein offre una dettagliata analisi sul funzionamento delle istituzioni economiche che furono capaci di creare le apposite strutture di supporto all’accesso al lavoro, allo scambio internazionale dei beni di consumo, e alla trasmissione delle conoscenze tecniche nell’Europa preindustriale.
Gabriele Marcon, European University Institute
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